Giuseppe Boem ("Bepi Borin") (189-1951)

Ufficiale sanitario di San Donà dal 1910 al 1951

aveva solo la quinta elementare ma fu come pochi una figura fondamentale nell'organizzazione dei servizi del Comune di San Donà.

la gente delle Terre Basse ne ha passate di tutti i colori e Giuseppe Boem fu testimone e protagonista di queste vicende.

Era nato nel . Nel 1909 tornò dalla naja col grado di sergente maggiore; aveva solo la quinta elementare, ma in un mondo di persone che non aveva alcuna scolarizzazione o aveva solo la terza, la sua quinta era già qualcosa.

Nel 1909 sposò Teresa...dalla quale avrebbe avuto sei figli.

Dal suo foglio matricolare ricaviamo che fu assunto come Vigile Sanitario nel 1910, dal sindaco Vincenzo Del Negro. In seguito avrebbe prestato il suo servizio sotto otto sindaci, otto commissari e tre podestà, per un totale di diciotto superiori (il sindaco Bortolotto fu poi anche podestà) Era diventato Vigile sanitario per far fronte al colera, ma le malattie in bonifica non finivano mai: prima la tigna, poi la pellagra, per non dire della malaria, e poi la tubercolosi che in presenza di condizioni insalubri aggrediva facilmente. E, come se non bastasse, c’erano le mosche, portatrici di malattie. Altro che il fastidio delle zanzare di oggi! E, poi, fu protagonista di qualcosa di innovativo, mai visto prima, l’avvio dei primi servizi pro Maternità ed Infanzia. Ma doveva anche seguire i poveri, curare i cimiteri, preoccuparsi dei malati psichiatrici, seguire le vaccinazioni…

Tutto quello che fece lo sappiamo da un memoriale che lo stesso Bepi scrisse al momento della sua collocazione a riposo, dal quale sono tratte le varie citazioni in prima persona che compaiono qui sotto.
Se ne deduce che dedicò al suo lavor una grande passione, che non gli consentì mai né pause, né ferie
Di tanto intanto gli fu affiancato qualche scriturale, che gli veniva lasciato per poco tempo. Ne ebbe almeno quindici. Sol negli ultimi anni di lavoro gli fu affiancato Bruno Conte, bravo e co tanta voia de laorar; e quindi la signorina Maria Campaner, ma prima…

...prima me portee el laoro a casa e me iutea me fioi. Lori m’à iutà tante e tante sere e domeneghe, parché da sol n’avarae mai smaltio tuto el laoro. Par no dir dei dì de festa, trascorsi in Comune e po le ore fora orario.
Ringraziemo el Signor che m’à tegnuo in bona salute e ch’El s’à degnà de benedir le me fadighe.

Ma andiamo con ordine.

Fu assunto come provvisorio nel 1910 e in via definitiva l’anno dopo,

in sostituzione di Pasqua Cadamuro, di anni 71, vedova Pasquot, deceduta in frazione Chiesanuova il 10 agosto 1911, in causa del verificarsi di un terribile morbo, il colera. Dopo le accertate vittime a Venezia, Chioggia, Burano e in altri comuni della provincia, le superiori Autorità Sanitarie, giustamente preoccupate dal timore che questo pauroso morbo avesse a dilagare, avevano emanato severe disposizioni atte ad impedirlo.

Ma in quell'anno prima del colera, da impiegato provvisorio, Bepi Borin fece quello che nessuno aveva mai fatto prima:
Curai il censimento di tutti i luoghi malsani del centro abitato, come latrine, acquai domestici, depositi di immondizie. Feci allontanare dal centro abitato tutti i letamai degli stallaggi pubblici che allora abbondavano. Infine, riuscii a far eseguire una maggiore pulizia e la disinfezione settimanale con cloruro di calce di tutti i vespasiani.

All'epoca il comune non aveva disinfettatori, mentre le condizioni igieniche di tante case lo richiedevano e allora provvedeva Bepi, prima e dopo l’orario d’ufficio e sempre gratuitamente. Mo1ta gente era contraria a tali interventi, ma i contadini erano abituati a obbedire, perciò si limitavano ad accampare delle scuse. N’ò mia tenpo pa ste robe, mi! Ò da monzer ’e vache e po ò da semenar. S’el vol, el se ’o fae lù sto laoro. Per rimediare al rifiuto degli abitanti delle case, provvedeva lui stesso e sempre da solo allo smontaggio della mobilia da disinfettare e magari ad attingere anche l’acqua occorrente per la disinfezione dai pozzi e dai canali vicini. Però el pajion se lo portavano i proprietari fuori dalle camere, guai a metterci le mani: nel pajon (il pagliericcio che serviva per dormire) i contadini nascondevano i propri risparmi. Solo loro potevano portare el pajon fuori dalla camera infetta per essere poi bruciato.

Ebbe contrasti non solo con la gente della campagna ma anche con quelli del centro città, con questi ultimi per via dei controlli sul cibo.

Tanto per fare un esempio con un cibo di prima necessità, il latte era venduto crudo in piazza o a domicilio, perché da noi la pastorizzazione non esisteva. Inoltre avviai la sorveglianza sui fabbricanti e sui venditori di gelati, magari abusivi. E ancora fruttivendoli, venditori di funghi, di pesce, di crostacei.

Scendevano i buranelli col vaporin, fino a Palazzetto e Passarella, col pesce, le masanete, la verdura, le cipolle, la frutta, tutta roba buona che raccoglievano a Sant’Erasmo, par lori e par i frati. Ma, purtroppo, portarono da queste parti anche il colera.
Bepi fu costretto a intervenire Chiesanuova:

Portata via la salma della Pasqua Cadamuro, i famigliari furono isolati in una speciale struttura in Viale Regina Margherita [attuale Viale Libertà, ndC]. Venne piantonata la casa infetta e quelle più vicine. Tutte le famiglie, e altre 25 persone di Isiata che avevano avuto contatti con loro, furono messe in quarantena. Ogni giorno si prelevavano dei campioni delle feci, da inviare al laboratorio di Igiene di Venezia per accertare la presenza del "bacillo virgola".

A Venezia Bepi ci andava col vaporin della dita Paolin, quello che portava il latte da San Donà a Venezia.

Tra i compiti da assolvere, c’era quello di accompagnare gli infermi di mente nei manicomi di Venezia, San Servolo per gli uomini e San Clemente per le donne. Si partiva sempre alle prime ore del giorno, e raramente era un viaggio tranquillo. Anzi.
Il servizio proseguì sino al 1930, quando l’Amministrazione provinciale istituì anche a San Donà un Dispensario mandamentale per malati di mente e altre forme mentali o nervose. Bepi Borin teneva i contatti con le famiglie e forniva ai malati i medicinali prescritti dal medico curante.

Poi si occupava anche dei sussidi in denaro ai più bisognosi, e doveva sempre compilare schede, registri, ricevute.

Durante la Grande Guerra, sul finire della stessa, nel giugno del 1918 fu nominato Maresciallo. Riguardo al suo grado, Bepi non accampava grandi meriti: Se i maresciali more, bisogna farghene de novi.

Nei diversi corsi che ho frequentato, ho imparato a distinguere i vari disinfettanti liquidi, gassosi, termici e come adoperarli. E poi distinguere a prima vista i generi alimentari, le derrate, le bevande sane da quelle sospette di essere avariate. Ho imparato a prelevare i campioni da inviare al laboratorio di analisi, a compilare i verbali di prelevamento, di contravvenzione, di sequestro e anche di denuncia.

Terminata la guerra e dimesso dal servizio militare, riprese il suo posto di Vigile sanitario. Gli furono affidati altri compiti tra cui quello di identificare le salme sia di civili che di militari.

Questi ultimi potevano essere italiani, austriaci o tedeschi o altri ancora. Soldati morti lungo le sponde della Piave; civili morti nelle vicinanze delle abitazioni o nelle campagne. C’erano sepolture segnate con croci di legno improvvisate, qualcuna portava un nome, molte erano senza croce e senza nome, solo un rialzo del terreno a forma di tumulo. Le salme venivano portate all’improvvisato Cimitero di Guerra. Io tenevo aggiornati gli appositi registri e curavo i rapporti con l'Ufficio Centrale "Cura Onoranza delle Salme dei Caduti”.
Il 1920 fu un anno importante per il mio lavoro e per la nostra città. La prefettura nominò come Ufficiale Sanitario del Comune il dottor Giuseppe De Faveri e impose di istituire l’Ufficio Sanitario. Ora, il servizio comportava una diversa impostazione, a cominciare da una sede propria. Non si sapeva dove andare, il paese era stato raso al suolo.

Il municipio era praticamente in casa del cavalier Idilio Galletti, all'inizio del viale della Stazione o Viale Garibaldi.

Fu approntata una sede in un locale di fortuna messo gratuitamente a disposizione dallo stesso Dottor De Faveri, in viale Garibaldi. Aver iniziato per primo la tenuta dei tanti registri previsti è stato un grande onore e tutto quello che ora si può vedere negli ampi scaffali dell'attuale Ufficio è tutta roba passata per le mie mani.

pellagra e malaria funestarono la vita degli abitanti del Basso Piave Secondo qualche storico la malaria influenzò persino l’esito della Grande Guerra, almeno sul fronte del Basso Piave. Tra i tedeschi si parla di almeno ottantamila morti a causa della malaria. Ma anche la pellagra continuò a infestare a lungo le nostre zone. Il Veneto fu la regione dove la malattia si estinse per ultima. E sa cosa determinò la progressiva sparizione del morbo? Reporter: Gli interventi igienici? Toni: Ghe ’o dise mi, cossa! ’A pelagra l’é sparia parchè i paroni no paghea pì i lavoranti col mais, magari quel indrio o squasi marz, ma co ’e svanzighe, coi schei, coi bezi, co ’a grana, no co ’a granea. Malvina: È proprio così, e può essere difficile da credere, ma la vera medicina fu il fatto di ri-cevere un salario e potersi nutrire anche con il latte. Infatti in Lombardia, dove que-sto era sempre stato alla base dell’alimentazione contadina, la pellagra era pressoché inesistente. Reporter: Dunque potrebbe essere questa circostanza che spiega come polenta e latte sia un alimento ancora molto gradito dalla nostra gente. Toni: Sì, però poenta brustolada. Reporter: E così che piace anche a me. Toni: Bravo! El me dae qua. (Toni e il reporter si stringono la mano.) Malvina: Inoltre ad aggravare la situazione, va detto che con la pellagra i segni di demenza si possono trasmettere anche alle generazioni successive. Per questo anche negli anni venti si registrarono diversi casi.

Compito del vigile sanitario era censire i pellagrosi, registrare le denunce, ma anche esercitare la sorveglianza sui molini, gli essiccatoi di granoturco, i mercati di granaglie, i granai privati, sovrintendere alla eliminazione del granoturco avariato. Negli anni 1935, 1936 e 1937 la malattia ebbe un ritorno di fiamma ma poi, grazie al Cielo, scomparve pressoché del tutto.
Reporter: E adesso possiamo parlare della malaria? Bepi: Sì, ghe ne parlen, però l’é da dir che ho fat la me parte prima de ’a grande guerra, con tanto de attestato de benemerenza e madaia de bronzo. Dopo, squasi tutt lo ha fat el Comitato Provinciale Antimalarico de Venezia. La situazione che si presentava alla fine della Grande Guerra era ancora molto grave. Lo stesso conflitto aveva contribuito ad aggravare una situazione di per sé già drammatica.
Nel 1918, tutto il territorio del comune di San Donà di Piave era diventato un acquitrino. Danneggiati gli impianti idrovori, ostruiti i canali di scolo delle acque e i fossi. Innumerevoli poi le buche scavate dalle granate e i triceramenti: quasi una palude. Ci trovammo a dover affrontare problemi igienico-sanitari di enorme portata.
Dopo la sistemazione di canali, fossi, scoli di acque, fu la volta delle cure e profilassi a tutta la popolazione. Iniezioni di chinino ai malati più gravi; somministrazione per via orale a tutti gli altri. Speciale riguardo veniva usato ai bambini … Malvina: Questo servizio era diretto personalmente dal compianto professor Valle di Venezia, coadiuvato da personale specializzato. Toni: E Piero Sepulcri dove lo metitu? E anche dopo. Comunque, a proposito della malaria, deve sapere che quella fu una vera guerra e il lavoro più importante, sistematico e definitivo, fu svolto proprio dal professor Sepulcri, sapiente e instancabile esperto malariologo.
Medico all’Ospedale Civile di S. Donà a partire dal 1923, entrò in contatto quotidiano con i casi più gravi di malaria presenti nelle bonifiche a est del Piave. Il professor Sepulcri maturò in questo modo una notevole esperienza tanto da essere nominato direttore dell’Istituto Antimalarico delle Venezie. A lui si deve l’istituzione dei laboratori antimalarici in tutto il Basso Piave, con medici specializzati che operavano ai suoi ordini.

Bepi Borin si occupò dei cimiteri. Se fino al 1913 ve n'era solo uno, tra le quattro strade (attuali Via XIII martiri, Via Bonifica, Via Cian, Strada dell' Oratorio) nel 1913 fu aperto un cimitero a Passarella e poi ne fu apero un altro nel ’30 a Grassaga, parché Ceggia n’avea dat la frazione. Toni: A lori el zucaro, a naltri ’l amaro, par modo de dir. Reporter: Perché lo zucchero? Malvina: Da quello che mi ricordo ci fu uno scambio di territorio e nella parte ceduta a Ceggia fu costruito lo zuccherificio. Bepi: Tornen ai morti. Nel ’34 fu aperto il cimitero a Ciesanova. E toccò a Bepi Borin istruire i custodi.

l’anno che i morti lo fecero sudare più dei vivi fu il 1927.

A seguito dell’apertura del nuovo cimitero del Capoluogo, dovetti provvedere alla esumazione, il trasloco e la tumulazione di tutte le salme dalle vecchie tombe a quelle nuove. Inoltre, con il dissodamento del vecchio Camposanto, i resti mortali rinvenuti e quelli presenti nel vecchio ossario, confluirono tutti nell’ossario del nuovo Cimitero. E ancora tante schede, registri e ricevute.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale ebbe di nuovo a che fare con i morti di guerra.

Erano le salme dei militari caduti per fatto di guerra, dei morti per bombardamenti, di quelli per fucilazioni di militari e civili. Ma la cosa più penosa fu assistere al riordino, alla identificazione e alla inumazione di tutte le salme dei civili morti in seguito al bombardamento dell'Ospedale, il 10 ottobre 1944. Sessantasette morti e una sola salma priva di identificazione. Era il corpo maciullato di una donna.

Quindi dovette occuparsi anche dei nuovi nati. Il Segretario Comunal Livio Fabris gli disse: "Questo servizio meglio di Boem non lo sa fare nessuno", e ridendo gli addossò anche quell'incarico.

A un certo momento fu fatto obbligo ai comuni di istituire il servizio per la Maternità e l'Infanzia. L'Amministrazione Comunale non sapeva a chi affidare questa nuova incombenza e alla fine la scelta ricadde su chi era incapace di dire di no.
Bepi s’impegnò nel nuovo lavoro con il consueto entusiasmo, anche se non doveva essere facile per un uomo trattare, sentire o interrogare delle giovani madri. Per non dire di quando doveva prendere una decisione, magari sostituendosi proprio a quelle giovani donne. Bepi aveva sempre per le mani pacchi e paccheti, casse, cassette, con farina, medicine, ricostituenti, latte in scatola e in polvere, ciucci e ciuccioti; e dopo ancora altri registri e schede per le mame e i bambini. Par non dire delle bollete e degli stampati da compilare, con una serie infinita di numeri da buttar giù.
L'incarico, per fortuna, andò avanti solo per cinque o sei mesi; poi gli subentrò nel servizio la signora Pandini, persona già anziana, ma seria, brava, che sembrava fatta apposta per lo speciale servizio. La quale, nel 1950, al momento del pensionamento di Bepi, gli scrisse una bella lettera.
Caro collega, l’opera fattiva e intelligente da lei svolta dovrebbe avere il plauso di tutti. Ma solo pochi sono in grado di comprendere quanto arduo sia stato il suo lungo cammino e come il suo lavoro si sia svolto attraverso deficienze e difficoltà non indifferenti e in condizioni di spirito, spesso non le migliori (…) Mi è cara l’occasione per esprimerle tutta la mia simpatia ed ammirazione, perché nei lunghi anni che lei mi è stato buon collega e ottimo consigliere, ho avuto modo di conoscere e apprezzare le sue non comuni doti come funzionario e come uomo.
Firmato: Ada Pandini, segretaria del Comitato Maternità e Infanzia.

Nel 1950 fu mandato in pensione - per raggiunti limiti di età - dal sindaco Celeste Bastianetto, sempre con la qualifica di Vigile Sanitario! Senza grandi cerimonie né gratifiche particolari. Ma quante cose aveva fatto!

Poco prima di andare in pensione, ovvero all’inizio del suo quarantunesimo anno di servizio, probabilmente l’ultimo, ma solo per volontà altrui, volle descrivere la passione con la quale aveva svolto il suo modesto lavoro a favore della propria città: scrisse una sorta di diario, di curriculum, di promemoria; erano tante le cose che aveva fatto e tanta era stata la poca riconoscenza che ne aveva avuta che, forse per vincere l'amarezza, forse per autogratificazione, decise di mettere per iscritto quelli che erano stati sicuramente i suoi meriti.

All’atto del pensionamento, quando stese il suo lungo memoriale, Bepi Borin aveva 65 anni. In quelle pagine c’è la dettagliata e minuziosa descrizione di tutto il lavoro svolto nel corso di quarantuno anni di servizio. Il memoriale di Bepi Borin si concludeva con questa commossa confessione:

Sono fisicamente malato e moralmente depresso e avvilito per le delusioni provate e per le umiliazioni che subisco e pertanto desidero ritirarmi quanto prima a riposo per vivere nella quiete del silenzio lontano da questo mondo ingrato. Lascerò così il mio affezionato Ufficio ove ho dato tutta la mia attività con la coscienza tranquilla, sicuro di non aver mai trascurato nulla, per la migliore riuscita dei compiti affidatimi. Se non ho fatto di più è perché più di così non potevo fare. All’atto di lasciare questo posto, ove ho consumato gli anni migliori della mia vita, rivolgo in primo luogo un ringraziamento al Signore che, immeritatamente, mi ha sempre assistito nel diuturno duro lavoro e che si è degnato di benedire le mie fatiche.

Qualche timido riconoscimento arrivò al momento ufficiale del suo pensionamento, nel 1951.
Scrisse il ragionier Ferrari sul Gazzettino del 17 giugno 1951:

Il suo oscuro ufficio all’ammezzato del Municipio, dove infallibilmente sempre lo si trovava, sembrava una centrale di energia. Complessa e sempre più assorbente fu l’attività di Boem, come di chi quasi fondò un servizio sanitario burocratico ed esecutivo indipendente dalle altre attività municipali e incessantemente lo perfezionò e lo accrebbe in direzioni e sezioni sempre più numerose.
Studio e meditazioni insegnano presto che a nulla servirebbero leggi, disposizioni, idee, iniziative lodevoli se non si trovassero subito uomini pronti e animati di spirito di sacrificio per iniziarne e continuarne l’attuazione pratica con devozione e con tenacia, senza commisurare la propria opera al consenso materiale che può essere e non essere dato, per condurre e ammaestrare altri a fare lo stesso.
Giuseppe Boem fu sicuramente uno di questi uomini. Purtroppo, non possiamo sorprenderci se il suo meritato riposo non è stato confortato da un più giusto e tangibile riconoscimento e dall’apporto di soddisfazioni morali da parte dei suoi superiori e dei suoi concittadini. L’esperienza tende a confermare quanto questa speranza si dimostri troppo spesso vacua. Tuttavia, siamo certi che per lui il miglior premio è stato la coscienza del dovere e la consapevolezza di aver sempre adempiuto ai propri compiti.

In occasione del suo pensionamento ricevette molti attestati di stima

Lettera della signora Malvina Lorenzon, levatrice del Comune, con la qual aveva collaborato negli ultimi 21 anni:

“Egregio Signor Giuseppe, solo chi ne conosce l’asperità e il sacrificio può meglio apprezzare il suo più che quarantennale lavoro, appassionato e paziente. Così posso farlo io che da 21 anni faccio parte del corpo sanitario di questo comune e posso testimoniare che tutta la sua attività è stata compiuta col più grande disinteresse ed amore per il prossimo. Capisco il suo rammarico per aver trovato spesso attorno a sé poca comprensione e poca gratitudine, ma la testimonianza più bella è quella della buona coscienza che come ha ispirato il suo lavoro, così ora renderà serene le ore del suo meritato riposo.”

Bepi Borin non fece in tempo a godersi la pensione: morì l'anno dopo.