STORIA di SAN DONÀ
dalle origini al 1250


Prologo

San Donà di Piave, diocesi di Treviso, provincia di Venezia

Un primo popolamento dell'area sandonatese avvenne già in epoca preistorica: le ricerche archeologiche condotte durante il Novecento hanno rivelato vestigia di un insediamento neolitico nei dintorni di Chiesanuova, sulla sponda sinistra dell'alveo storico del fiume Piave. Ma poiché non so dire altro, se non che dirvi che san Donato allora non era neanche esistito, preferisco cominciare dal primo complemento di specificazione, il più naturale, il più semplice:

...di Piave

San Donà si trova alla sinistra del Piave, in prossimità delle sue ultime anse e prima che esso diventi una dritta canna puntata verso il mare. Sappiamo tutti che quella è una canna artificiale che risale al XVII secolo. Prima il Piave era libero di… Prima quando?

Forse è bene cominciare dall’inizio. All’epoca Romana? No, forse è troppo prima: gli storici romani Tito Livio, Strabone, Polibio, Plinio il Vecchio non fanno mai riferimento al Piave. Non c’era il fiume a quel tempo? Certo che c’era, solo che le sue acque si confondevano con quelle del Sile e perciò anch’esso veniva confuso col ‘Sile’. Pare che i Romani lo chiamassero ‘Alassum’ [verificare la notizia].
Il nome ‘Piave’ compare per la prima volta nei ‘Carmina’ del vescovo di Poitiers Fortunato Venanzio (nato a Valdobbiadene verso il 530 e morto nel 617, poi santo), che lo incluse tra i fiumi veneti nelle relazione di un viaggio «de Ravenna progrediens Padum, Athesim, Brintham, Plavem, Liquentiam, Tagliementumque», ossia, ‘partedendo da Ravenna, il Po, l’Adige, il Brenta, la Piave, la Livenza e il Tagliamento’. (=raccontando del viaggio fatto nel IV secolo da Gregorio vescovo di Tours? Controllare la notizia). Qui è il Sile che manca dall’elenco. Lo stesso Fortunato Venanzio torna a nominare il fiume parlando dell’amico e compagno di studi Felice, primo vescovo di Treviso, che nel 569 andò incontro ‘a Lovadina, presso il fiume Piave’, ad Alboino, re dei Longobardi. (Il gesto permise a Felice di veder risparmiata, a differenza di altre, la propria chiesa dalla devastazione ed anzi di vederne aumentare il territorio, inglobando parte delle diocesi di Altino e di Oderzo). [Controllare l’esattezza della citazione]

L’episodio dell’incontro tra Felice e Alboino “…ad fluvium Plavim” è raccontato anche dallo storico dei Longobardi, Paolo Diacono (720 ca – 799), nella sua Historia Langobardorum [libro II, par. 12]

Il Piave viene nuovamente nominato nella ‘Cronica’ del Diacono Giovanni (XI sec.) alla data del 71? [controllare il riferimento], in occasione degli accordi tra il primo doge di Venezia, Paoluccio Anafesto, e Re Liutprando dei Longobardi nello stabilire i confini di Venezia . In questo e nei documenti successivi, quello che non sfugge è una certa confusione che allora esisteva tra Sile e Piave; ambiguità che trova origine nell’antica configurazione del fiume, che scendeva dalla sorgente privo di arginature, lasciando le acque libere di scorrere in numerosi rami e rigagnoli, definiti nel complesso Piave. Nel loro libero scorrere queste acque venivano a confondersi con quelle del Sile, che da Treviso scendeva verso la laguna in direzione di Altino.

Che significa Piave? Alcuni sostengono che venga dal tedesco ‘ablaufen’ (=correr giù), altri lo fanno derivare dal longobardo ‘plow’ che indica lo scorrere delle acque; altri ancora ritengono che sia stato chiamato ‘Flavio’ in onore di Flavio Ostilio che governò Belluno nel 110 a.C., e che il nome si sia corrotto poi in ‘Plavio’ e quindi Piave.
[O. Sottana, Storia millenaria del Piave, Treviso 1988].

E ormai che abbiamo fatto il salto all’insietro nel tempo, approfittiamone per dare un’occhiata alla regione dove Piave e Sile si confondevano, ai confini della laguna veneta, allora molto più estesa dell’attuale:

La Regio X Venetia et Histria

Abbiamo iniziato raccontando che le ricerche archeologiche condotte durante il Novecento hanno rivelato vestigia di un insediamento neolitico nei dintorni di Chiesanuova, sulla sponda sinistra dell'alveo storico del fiume Piave.
Il territorio è caratterizzato da valli, barene e paludi ad eccezione un tratto ricco di boschi, una fascia boschiva (la selva Fetontea) che giunge fino al Livenza, al margine meridionale della quale corre la via Annia, la strada consolare romana che collega Roma con Aquileia e segna il confine tra la terra de boschi e le acque della laguna.

(La via Annia)

La via Annia, dritta come un fuso secondo i dettami dei “manuali delle costruzioni stradali” di Roma, aveva avuto un ruolo importante nella ‘romanizzazione’ del Veneto. Aperta dal pretore Tito Annio Rufo, da cui aveva preso il nome, nel 131 a.C. a prosecuzione della via Popilia, l’Annia partiva da Hatria (Adria) e raggiungeva Aquileia passando per Patavium (Padova) e Altinum (Altino), nel cui agro entrava presso l’attuale località di Marghera; proseguiva poi parallela alla laguna fino al Piave, in direzione di Iulia Concordia (Concordia) e a Concordia confluiva nella via Postumia.
Nell’odierno comune di Musile essa «tagliava le Cassinelle e costeggiava il Gorgazzo per circa due chilometri» [Vittorio Galliazzo I ponti romani sulla via Annia]: la Annia corrisponderebbe pertanto all’attuale via Emilia, come attesterebbero alcuni reperti (anfore e vetri) ritrovati recentemente nelle sue prossimità. Ma poiché tale via era spesso invasa dalle acque della laguna, in epoca più tarda ne fu tracciato un percorso alternativo, arcuato verso nord, come confermerebbe il recente ritrovamento dei basamenti di piloni e di travi di legno di un ponte romano in località Ponte Catena a Meolo; questo percorso attraversava il Piave qualche chilometro più a nord, la dove un pass, cioè un traghetto – oggi un ponte a pagamento tra Fossalta e Noventa – ne segna ancora la posizione. Per certo, la via Annia, arrivata al Piave all’altezza dell’attuale ponte tra Musile e San Donà, nei tempi di piena del fiume veniva abbandonata per raggiungere più a nord il predetto pass, e ritornava poi a riprendere sulla sinistra del fiume la grande via romana.

La via Annia attraversava il Piave all'altezza dell'attuale centro urbano di San Donà per dirigersi verso nord-est e superare il canale Grassaga con un ponte probabilmente in pietra.
La presenza di una rete viaria articolata (imperniata sulla Via Annia), la scoperta di tracce significative di centuriazione, e la collocazione dell'area tra le vicine città di Tarvisum (Treviso), Altinum (Altino), Opitergium (Oderzo) e Iulia Concordia (Concordia Sagittaria), lasciano presumere che nell'età romana l'attuale territorio di San Donà fosse abitato.

Lungo il percorso della Via Annia esistono oggi in vari comuni diverse ‘via Emilia’, cartelli stradali dedicate dalle amministrazioni locali a questa via, lungo tutto il suo percorso che allora per molti tratti fu solo ipotetico perché fino a pochi decenni fa essa era nota col nome di via Emilia Altinate per via di un confuso passo di Strabone. La riattribuzione corretta del nome ‘Annia’, risalente a qualche decennio fa, non ha impedito ai vari tronconi di ‘via Emilia’ di continuare ad esistere nelle toponomastiche di vari Comuni, tra cui Musile.

Ci siamo col fiume e la zona? Ancora qualche dettaglio.

Tra boschi e paludi

Numerose fonti (Giovanni Rossi all’inizio dell’Ottocento, ripreso poi dal Cicogna) parlano di una grande foresta a nord di San Donà, “la famosa selva di Fetonte appartenente alla poi distrutta città di Altino, [che] si estende[va] fino a comprendere la terra chiamata poi di Monestier, passando appunto per la linea delle così dette dipoi Valli di Casa Tron e da Riva su pel canale ora Fossetta da un lato, per Fossalta, Zenzon, s. Andrea di Barbarana; e per l’altro per la linea del fiumicello Meolo, e perl Sile […] Dovunque in questa linea alla sinistra del Piave trovansi traccie dell’antichissima continuazione boschiva. Parecchi luoghi appellansi Bosco, o Busco tutt’ora anche alle opposte sponde […]”

San Donà si colloca a metà tra i boschi e la laguna, e la sua vicenda corre sospesa tra gli avvenimenti del basso trevigiano e le sorti della laguna.

Nel 168-169 d.C. Quadi e Marcomanni invasero Oderzo, si registrarono quindi le funeste invasioni delle truppe barbare durante il regno di Gallieno (260-268) e di Aureliano (270-275). Il Cristianesimo, giunto tardivamente nel Veneto, lasciando dietro di sé poche tracce di martirio, trovò organizzazione diocesana prima della pace costantiniana solo nella città di Aquileia, Padova e Verona. In Altino la presenza di un vescovo, Eliodoro, data solo a partire dal 381.

Scrive Teogisillo Plateo [Il territorio di San Donà nell’agro di Eraclea, 1907]: “Quando la stella del romano impero volgeva al tramonto imperversarono le persecuzioni contro i cristiani. Seguirono quindi le irruzioni barbariche e le lotte scismatiche dell’arianismo, e così le più cospicue famiglie di Aquileia ripararono a Grado, quelle di Concordia a Caorle, di Oderzo a Melidissa, di Altino a Torcello, di Padova a Malamocco e Chioggia e di altri luoghi in altre isole meno importanti”.
Immaginiamo che i pochi di queste zone (che ad aver documenti si sarebbe potuto citare qui uno per uno tanto eran pochi), si spinsero dunque, come quelli di Oderzo e di Altino, verso il litorale, verso le isole della laguna. Magari non tutti, magari solo alcuni… Gli altri, nascondendosi tra le acque della laguna, piegandosi come il giunco alla fiumana per poi riergersi, si saranno mescolati coi barbari e nelle vene degli attuali abitanti di San Donà scorrerebbe sangue venetico e barbaro.

Ritorniamo al tempo delle invasioni barbariche.

Nel V secolo cominciano ad apparire gli episcopati di Treviso e Oderzo, sorti in un contesto politico dominato dalla presenza dei nuovi conquistatori, dapprima i Goti e poi, dal 569, i Longobardi che resteranno presenti come ceto dominante dal VI all’VIII secolo.
I profughi locali intanto (ancora il Plateo): “[…] non trovando punto sgradevole il soggiorno dell’estuario, o temendo nuovi tormenti nella terra ferma, fissarono nelle isole la loro dimora […]” Gli isolani, rafforzati dai nuovi abitatori, e animati dallo spirito d’intraprendenza loro impresso dalla vita avventurosa del mare, fecero tesoro delle cognizioni utili importate e si affrettarono ad istituire una consociazione fra le isole per provvedere alla difesa dai nemici esterni e per regolare nel tempo stesso le faccende interne.

Aggregate le isole minori alle maggiori, si contavano, in antico, sette capoluoghi corrispondenti ai sette lidi di Grado, Caorle, Melidissa, Torcello, Malamocco e Chioggia, che Plinio, nella sua Storia naturale, distingue col nome di sette mari. Questi capoluoghi avevano il loro porto che serviva anche alla terra ferma, cioè: il primo ad Aquileia, il secondo a Concordia, il terzo ad Oderzo, il quarto ad Altino [...] Si può quindi stabilire che, nel V secolo dell’era cristiana, l’estuario cessò d’esser un luogo a disposizione del primo occupante e i lidi cessarono la loro soggezione alle Città contigue, affermando la loro costituzione di Stato libero, retto colla forma di repubblica federativa democratica.

Alcuni scrittori assegnano, alla consociazione dei veneti secondi, la data del 25 Marzo 421, in cui ebbe luogo la consacrazione della Chiesa dedicata al Beato Giacomo Apostolo a Rialto, compiuta coll’intervento dei vescovi Epodio I pastore di Opitergio, Severino di Padova, Ambrogio di Altino, e Giocondo di Treviso i quali estendevano la loro giurisdizione ecclesiastica alla nuova Venezia marittima.

Popolo, clero e nobili di ciascuna delle isole maggiori riuniti in assemblea generale con voto palese libero eleggevano il loro capo col titolo di Console, investito dalle funzioni di Magistrato locale colla prerogativa di membro del governo federale.

Le grandi divisioni della giurisdizione erano segnate dai fiumi, cioè: la I andava dall’Isonzo al Tagliamento, la II dal Tagliamento al Livenza, la III dal Livenza al Piave, la IV dal Piave al Sile, la V dal Sile al Dese, la VI dal Dese all’Adige”.

Il territorio sandonatese apparteneva dunque alla III giurisdizione e il suo capoluogo di riferimento era Melidissa. Ci abitava qualcuno? Difficile dirlo.

Ancora Plateo: “Le isole incominciarono ad avere edifici importanti coi loro vescovi soltanto dopo la discesa d’Alboino.

Da questi fatti, e in particolare dal sicuro asilo che gli abitanti del continente veneto trovarono nelle lagune, si apprendono tre cose interessanti; e cioè:
a) che l’estuario era impenetrabile agli oppressori dalla terra ferma;
b) che nelle isole l’aria era buona, l’acqua potabile e i mezzi di vita abbondanti;
c) che la libertà e l’ospitabilità regnavano sovrane.

Secondo Vitruvio e Strabone la Venezia inferiore da Altino ad Aquileia era intersecata da fiumi, canali e paludosa; secondo altri, accanto alle paludi vegetavano rigogliosamente estese boscaglie e terreni coltivati e nelle sabbie marine, ora inutilizzate, facevano pompa delle superbe pinete da Ravenna alle foci del Tagliamento. Non v’è dubbio che le isole, difese dalle acque marine e fluviali, per le milizie di terra di quei tempi fossero vere fortezze inespugnabili, tali essendo state dichiarate dallo stesso Attila, che non vedeva ostacoli insuperabili ai suoi ardimenti.

Quanto alla bontà dell’aria, lo stesso Vitruvio, scrittore dei primordi dell’era cristiana, facendo il confronto delle paludi pontine colle veneziane, ebbe ad affermare che quest’ultime dovevano la salubrità al beneficio del flusso e riflusso del mare, che distruggeva i germi di putrefazione. Questa opinione trovò conferma 600 anni dopo nelle lettere di Cassiodoro. D’altra parte, le selve antiche e i pineti marini non dovevano essere estranei alla bontà dell’aria”.

Una descrizione particolareggiata a tinte vivaci di Melidissa e delle altre isole nei primordi del VI Secolo l’abbiamo dalla XXIV lettera della preziosa raccolta di Cassiodoro, l’eccelso uomo di Stato, Prefetto di Teodorico, alla quale è attribuita la data del 520 circa.
Questa lettera esprime impressioni dell’autore di essa ricevute anni prima in una sua visita all’estuario, ed è diretta ai Tribuni delle lagune venete:

Abbiamo ordinato in Istria che venga inviato a Ravenna del vino e dell’olio essendo riuscito abbondante il raccolto di questi prodotti nello scorso anno. Voi possedete navigli a sufficienza, perciò noi vi preghiamo di voler trasportare colla solita compiacenza queste provvigioni, poiché l’ordinazione non basta, ma è anche necessaria una pronta spedizione. L’effettuare tal cosa in ristretto spazio costerà ben poca fatica a Voi, che veleggiate spesso per immensi mari, a voi che siete nati marinai che dovete tenere la via delle acque per passare nel vostro luogo natale dall’una all’altra casa. Che se talvolta le tempeste v’impediscono d’allargavi in alto mare un’altra via vi si apre ancora, ed è pienamente sicura; vo’ dire quella de’ fiumi, su cui le vostre barche, protette e salve dai venti e dall’intemperie s’inoltrano fra le terre, sicché vedendole da lungi si sarebbe indotti a credere che fosse pianura anche là dove voi correte. E le vostre barchette non temono i venti; sicure raggiungono terra e mai non naufragano, perché la spiaggia e vicina. A tal sorta di trasporti vi serve la corda alzaia che la vostra gente di mare adopera in luogo di vela; ed il marinaio procedendo a piedi muove il pesante carico riposto nel naviglio. Mi fa veramente piacere (continua Cassiodoro) rammemorare qui ciò ch’io vidi co’ miei propri occhi della vostra patria. L’illustre provincia Veneta, un dì ricolma di nobiltà si estende verso mezzogiorno fino al Po ed al territorio di Ravenna, mentre verso oriente gode la vista stupenda dell’Adriatico. Quivi, per la vicenda del flusso e riflusso, ora appar terra, ora sembra ch’essa vi si sprofondi ancora sicché d’un tratto si vedono isole, ove poco prima una squallida pianura si mostrava a nostri occhi. E voi in tal dominio, da mare e da terra contrastato, voi vi avete erette le case come nidi d’uccelli marini; con fascine e con dighe sapeste collegare le vostre abitazioni; voi ammonticchiate la sabbia del mare per rompere le onde infuriate; e quella difesa, in apparenza debole, annienta la forza delle acque. Pesce è il cibo di voi tutti; la casa dell’uno è simile a quella dell’altro; perciò voi andate esenti da un morbo, che altrove rallenta i vincoli della società dall’invidia, cioè dalla gelosia dall’egoismo che surgono per la diversità delle condizioni. La vostra attività industriale è tutta rivolta a produrre il sale; gli spazi sui quali esso si consolida e asciuga vi rendono il servizio e l’utile del campo e dell’aratro. Il sale occupa presso di voi il posto che altrove ha il denaro coniato. E fortunati voi! Dell’oro si può far senza, non già del sale, che è necessario condimento di tutti i cibi...

e così via.

La lettera del Cassiodoro ci conferma che le isole venete costituivano una repubblica federativa governata da tribuni; che questo stato era in buone relazioni coi dominatori di terra ferma; che possedeva cantieri provveduti di ottimi velieri per la navigazione marina e buone barche pel traffico fluviale, esercitato col sistema dell'attiraggio tuttora in uso, ed altre per la pesca; che gli abitanti delle isole erano marinai robusti, esperti, attivi, parchi, i quali vivevano modestamente in anguste capanne cibandosi di pesce; che era molto curato il commercio nei più lontani mari e che la lucrosa industria del sale era in fiore.
Interessantissima poi riesce l’affermazione del Gran Cancelliere che questi abitanti andavano esenti dai mali morali che affliggevano la terra ferma”
Saltiamo un pezzo e andiamo subito a leggere quali erano i mali della grande città, allora come ora:

La sobrietà di questo popolo era veramente eccezionale, se avendo mezzi facili per provvedersi di cibi graditi preferiva il pesce. Nel vestire, poi, lasciava il finissimo bisso per la grossa lana delle vicine terre e indossava il saio corto a preferenza della toga, il pileo al cappello. Il vestito comune consisteva nel copricapo a mitra, giacca a sacco, calzoni larghi, sandali ai piedi, cintura con daga al fianco e una collana al collo. Il pescatore e il marinaio si distinguevano dal berretto, il cacciatore pel cappello, il soldato per l’elmetto. Le armi si riducevano ad una daga o stocco da punta e taglio, alla lancia e alla freccia. Al desco frugale non v’erano tovagliata, le posate, i bicchieri: si mangiava in rustiche scodelle in unico catino, un vaso di terra serviva a dissetare tutti i commensali. Nelle isole non si conoscevano amori sdolcinati, sfibranti: in un dato giorno le fanciulle si adunavano al tempio e i giovani sceglievano fra esse la sposa. La donna era rispettata secondo la religione cristiana; la morale, la buona fede, la fratellanza, la libertà regnavano sovrane.

A citar il Plateo che cita Strabone vi sarà venuta voglia di abbandonare il libro di Carlo Dariol e cominciare da quelli, e vi consiglio di farlo. Ma loro non parlano di San Donà di Piave, e se io tanto rubo a loro è perché la situazione doveva esser per queste zone assai simile, se non la medesima appunto, di quel che accadeva attorno.

Durante l'alto medioevo le sorti del territorio sandonatese furono legate alla città di Heraclia, sede vescovile e prima capitale del Ducato di Venezia. La città, originariamente chiamata Melidissa e sorta tra il VI e il VII secolo intorno all'attuale frazione di Cittanova, scomparve nel IX secolo.

L'insediamento di Fines

Una prima chiesa, presso Fines

La chiesa di S. Remigio, edificata nel primo decennio del secolo IX dai Franchi, auspice Carlomagno, nella borgata Fines, civilmente occupata dalle milizie capitanate da Pipino, è da considerarsi il primo edificio religioso di San Donà, il cui nome non è ancora nato.
Tale chiesa, intitolata all’arcivescovo di Reims, che convertì al cristianesimo i Franchi, ci ricorda la città francese rinomata per il battesimo del fondatore della monarchia dei Franchi e per la consacrazione dei re; ma ci ricorda soprattutto che Fines, sebbene facente parte del territorio d'Eraclea, parteggiava per il doge Obelerio; ci ricorda che Carlomagno (che scese in Italia nel 773 e restituì al Patriarca di Aquileia Paolino il potere temporale nel 775) mostrava sentimenti religiosi; ci ricorda infine che a questo principe popolare, incoronato Imperatore da Leone III nella notte di Natale dell'anno 800, toccò una sconfitta seria nell’assalto dato a Rialto, per il volere e valore di Angelo Partecipazio e Vettore da Eraclea, nel momento in cui credeva d’essere ormai padrone dell’estuario.

Che la Piave dovesse essere la principale attrice per queste zone non è dificile da credere: nel corso dei secoli essa continuò con tremenda regolarità a far parlare di sé, e ci par buono citare l’inondazione dell’820. [chi la cita?]

Ora finalmente giungiamo al sostantivo:

San Donà…



A confermare che questo non sarà un libro algido (=privo di passione), ricordo che il più prosaico toponimo “Musil” (diga, argine, ma anche recinto coltivato) comparve intorno all’anno 836 e corrispondeva ad alcune case sulle rive della Piave. Destra o sinistra? Pare sinistra. Qui fu costruito il primo edificio sacro in onore di san Donato, vescovo e martire. Quale san Donato? Già, perché di santi Donati ce ne sono ben undici; ma solo tre furono vescovi; e cioè il vescovo di Fiesole, quello d’Arezzo, e quello dell’Epiro, contrada dell’antica Grecia sul mar Ionio, oggi compresa nell’Albania soggetta ai turchi.
La Curia Trevigiana all’inizio del XX secolo stabilì che si trattava di quello d’Arezzo (festa il 7 agosto), e in conseguenza di ciò il Comune di Musile in anni recenti ha stabilito un gemellaggio appunto con la città di Arezzo.

La vecchia Melidissa andata in decadenza fu rifondata con il nome di Civitas Nova Heracliana dal doge Agnello Partecipazio, noto anche con il nome Angelo e il cognome Particiaco, nato a Eraclea, nella seconda metà dell'VIII secolo e divenuto 10º doge del Ducato di Venezia nell'810-811 (morì nell'827); ma anche la città nova andò incontro a un progressivo declino economico e politico nel corso dei secoli successivi e oggi vive sotto il nome dell'omonima frazione.

Citando di straforo che l’invernata dell’860 fu tremenda e lo spessore del ghiaccio sui corsi d’acqua fu tale da permettere ai carri di transitarvi sopra; che il 1084 fu funestato da alluvione e pestilenza, quest’ultima dovuta alle «meteore», e che il 1110 fu di nuovo afflitto da un’alluvione spaventosa, un cataclisma, dobbiamo notare che le inondazioni erano all’ordine del giorno, in un’epoca in cui la manutenzione degli argini era assunta collettivamente dai proprietari dei terreni rivieraschi: gli argini erano di fatto in stato di abbandono ed erano limitatissime le risorse economiche impiegate per creare valide opere difensive.

Da chi fu fondata dunque S. Donà?

Questo ci racconta il fidato Plateo:

All’alba del secolo XII le guerre, i vandalismi incoscienti e tutti gli altri prodotti delle forze brute dei tempi e degli uomini, congiunti alle grandi e frequenti inondazioni del territorio, avevano quasi distrutte le vestigia della spenta grandezza d'Eraclea, Cittanova e Fines. Le torbide poi dei fiumi coi depositi di sabbie e di altre materie avevano coperto del manto terreo perfino le tracce dei grandi edifizi, quando a completare l’opera fatale venne il cataclisma del 1110, dagli storici considerato il secondo diluvio universale, dal quale vennero allagate completamente le terre basse, obbligando gli abitanti di questi luoghi, non fuggiti in precedenza per la malaria, a rifugiarsi nei luoghi alti vicini, preservati dalle acque. Il governo della Serenissima impegnato nelle guerre d’Oriente, della Dalmazia e contro i Padovani, poco o nulla si occupava di queste lande paludose, dove un di s’ergeva superba la capitale delle lagune, per cui l’intero territorio, più tardi battezzato col nome di S, Donà, fu abbandonato nel senso più lato della parola. Più tardi poi, quando la Repubblica volle ricuperarne i diritti di proprietà, fu costretta a classificarlo nel patrimonio del dogado coll’appellativo di «rason vecce». Passarono pochi anni e i rifugiati nei terreni alti, la maggior parte ancora boscosi, come le Mussette e Chiesanuova, vedendo la possibilità di mettere a coltura dei pezzi di terra, ormai liberati dalle acque, approfittarono del materiale abbondante dei boschi e paludi per ricostruire delle capanne, prima presso le foci dei fiumi, presso le valli da pesca e caccia e poi in altre località. Con lavori di scolo e di difesa primitivi procurarono all’aratro maggior estensione e, sebbene non mancasse la malaria, pur tuttavia, anziché vivere nelle terre vicine desolate dalle guerre, ritornarono alla vita tranquilla della caccia, della pesca, dell'agricoltura, come avevano fatto 900 anni prima i fondatori di Melidissa. Questa formazione della comunità indipendente, senza imposizioni, senza artifici legali è dovuta eziandio a tendenze e interessi omogenei, a legami di convenienza, alla fertilità del suolo e fors’anche a quell’amore ostinato, a quel cieco istinto che avvince l’uomo alla terra degli avi, si trovi sopra una rupe, nella foresta, nel deserto, sopra un vulcano o in una landa paludosa. È quindi indubitato che i primi abitatori di San Donà erano discendenti degli abitanti dell’agro eracleese dall’inondazione del Piave sfrattati nel 1110. Naturalmente fra questi discendenti sono esclusi i ricchi e i marinai emigrati in massa a Malamocco, Rialto e Torcello nell’anno 804 e sono compresi invece i dipendenti del doge posti a custodia dei boschi e delle altre terre di Cittanova e Fines in quel tempo patrimonio del principe. È un’origine umile in tempi tristi, senza i fantasmi dell’antica grandezza, senza alte idealità, ma che ha dimostrato nei fondatori di S. Donà le preziose doti di operai miti, robusti, frugali.

Una cosa sembra assodata: in seguito all'anno 1000, ad ovest di Cittanova si erano formati due borghi: San Donato e Mussetta. Cominciamo dal secondo.
In veneto antico la voce mussa o musa, citata negli statuti bellunesi e trevigiani, indicava un "prato chiuso per il pascolo". Secondo Wladimiro Dorigo, il toponimo mussetta ricorda un dosso di origine antropica o naturale con funzioni confinarie. Il primo nucleo di Mussetta si sviluppò in seguito all'anno 1000 attorno a un castello edificato dai Patriarchi di Aquileia, i quali detenevano la giurisdizione sul territorio circostante Per essere più precisi, Mussetta era parte di un ampio feudo, che comprendeva Fossalta di Piave, Croce, San Donato, Losson della Battaglia, Meolo e Marteggia.
Per tornare alle calamità, nel 1117 e 1128 vi furono scosse di terremoto.

Ma torniamo alla storia di san Donato. Ecco come andarono le cose per il Plateo:

Il doge Michel, espugnato Tiro e occupati altri luoghi nella guerra sanguinosa sostenuta dai crociati di Terra Santa contro i profanatori del tempio di Cristo, fatto un ricco bottino, nell’anno 1128 rimpatrio trionfante, portando seco, fra le cose più preziose per quei tempi, i corpi di S. Isidoro e di S. Donato, quest’ultimo vescovo dell’Epiro, trovato in un castello dell’isola di Cefalonia, la più grande delle isole Ionie della Grecia.
In quell’epoca il vescovo di Torcello per fuggire la malaria alternava la residenza fra Torcello e Murano, allora città fiorentissima con sessantamila abitanti, e il doge fece dono alla diocesi torcelliana delle reliquie di questo S. Donato. Il vescovo s’interessò del collocamento dei resti mortali del santo in modo particolare, e in breve la rinomata chiesa di S. Maria di Murano, che era stata edificata un secolo e un quarto prima e funzionava da duomo, venne restaurata radicalmente con pregevoli decorazioni, e in essa furono collocate le ossa di S. Donato, le quali ebbero così nel rinnovato bellissimo tempio degna dimora. Dal dono del doge Michel al completamento delle opere di restauro e abbellimento, passarono due lustri, come lo prova la data che ancora oggi si scorge nel pavimento del tempio (1140), da quest’epoca intitolato a S. Donato e ora dichiarato monumento nazionale.
La fama di questo santo dopo il 1140 incominciò a diffondersi rapidamente in queste terre, così da indurre i vescovi di Torcello, Treviso, Eraclea e Jesolo a costruire una cappella presso la Torre del Caligo, sul confine torcelliano, dedicata a questo S. Donato al duplice scopo di regolarizzare i confini delle diocesi, e di dar modo agli abitanti che incominciavano a ripopolare il territorio di compiere le pratiche religiose. La cappella nel punto di confine (la cui esistenza è attestata a partire dal 1154) fu consacrata dopo il 1186, quando cioè queste terre non avevano ancora un nome proprio. Intanto gli abitanti delle terre vicine, che accorrevano alla cappella di S. Donato per venerare il titolare, affibbiarono il nome del medesimo alla comunità in formazione, sul cui territorio transitavano, e così questo luogo fu ribattezzato col nome del santo in voga”.[...]
Questa terra adunque ebbe per primo nome quello di Sancti Donati, al quale più tardi fu aggiunto quello di Sancti Ermelii indicante la distrutta Fines e le Mussette, e per molti anni fu appellato «terra de Sancti Donati et Ermili».

Contemporaneamente, sempre a ovest di Cittanova, a nord della villa Sancti Donati era andato formandosi un altro borgo: Mussetta. L'uno e l'altro dei due insediamenti furono dapprima soggetti alla giurisdizione temporale del Patriarcato di Aquileia.

Abbiamo detto (o l’ha detto il Plateo?) che le terre del Basso Piave a quei tempi erano incluse nell’Agro di Eraclea che si estendeva per circa 20 mila ettari e che tra di esse erano compresi 1.500 ettari dell’attuale territorio di Musile e di Croce. Ma se la maggior parte dell’Agro di Eraclea apparteneva al Dogado Veneziano (come Musile) ed era suddivisa tra le docesi di Torcello, di Equilo e di Cittanova, il territorio a nord dell’Annia comprendente tutta la Croce di oggi e parte della San Donà di oggi apparteneva politicamente al patriarca di Aquileia.

Anche dal punto di vista religioso vi era separazione: era sotto la giurisdizione del vescovo di Treviso il territorio di Croce, mentre era sottoposto alla giurisdizione del vescovo di Torcello il territorio musilense odierno, escluso l’attuale centro che apparteneva alla diocesi di Cittanova, cosa che fa pensare che la Piave da quelle parti scorresse allora un poco più a occidente.

Un documento risalente al 1152 cita la soggezione religiosa di Mussetta ai vescovi di Treviso, indicando la chiesa dell'abitato, dedicata a san Biagio, come una «regula» dipendente dalla pieve di San Mauro di Noventa. Quanti abitanti aveva? Pochi, come pochi (qualche centinaio di abitanti) avevano San Donà e Croce. Non dovette perciò fare molti morti la peste che nel 1172 provocò tanti morti in tutto il trivixano.
[Romanin, Storia documentata di Venezia]

Nel 1176 papa Alessandro III, quale segno di riconoscenza per la conversione della Chiesa di Aquileia alla sua causa contro l’antipapa Vittore IV, le riconosceva la giurisdizione e i privilegi antichi.

Il patriarca di Aquileia doveva avere difficoltà ad amministrare questi luoghi distanti, se nel 1177 preferì “donare” ad Ezzelino da Romano il Balbo che tornava dalla Terrasanta «la villa di Fossalta vicino alla Piave e il castello di Mussa con tutte quelle possessioni e terre e boschi che al detto castello appartengono».
[G.B. Verci Storia degli Eccelini, Venezia 1941]
Non si trattava però di una vera e propria donazione: a Ezzelino fu concesso di esercitare su questi territori una sorte di avvocazia. In quello stesso anno, a pochi chilometri di distanza, Federico Barbarossa si riconciliava con papa Alessandro III nella Basilica di San Marco a Venezia, e nasceva la festa della “Sensa”.

Nell’anno 1186 fu costruita la cappella sul confine torcelliano intitolata a S. Donato; nei tre lustri successivi si diffuse in queste terre la fama del Santo assunto·per patrono.

In quegi anni la giurisdizione civile di Mussetta restò in mano alla casata degli Ezzelini e nel 1207 il feudo venne assegnato in dote a Palma da Romano (figlia di Ezzelino II il Monaco) per le sue nozze con Valpertino di Cavaso (o di Onigo) [Romanin]. Il matrimonio fu celebrato il 16 febbraio dello stesso anno a Mussetta alla presenza di importanti personaggi del tempo. In quel periodo la giurisdizione ecclesiastica apparteneva al Patriarca di Aquileia e il castello era dotato di una chiesa intitolata a Santa Maria Assunta e a Sant'Osvaldo.

Nel frattento, nel 1203 i Veneziani avevano devastato Costantinopoli nel corso della IV crociata e nel 1214, al momento di ritirarsi in convento, Ezzelino detto il Monaco suddivideva i suoi beni tra i due figli assegnando a Ezzelino i possessi nel trevigiano e ad Alberico quelli di Vicenza.
[MAURISIO, cronaca ezzeliniana… ]

Nel 1217 Domenico di Guzman passava per Noventa accompagnato dal patriarca di Aquileia Volchieri; devoto della Madonna qual era, diffondeva ovunque la Scuola del Rosario da lui fondata; e alla quale prima o poi anche San Donà avrebbe aderito.
[D. S. Teker: Storia cristiana di un popolo, pag. 14]
Nell’Oratorio del Rosario, a fianco della chiesa, una lapide del 1717 ricorda la nascita del primo oratorio di devozione al rosario in occasione della visita di San Domenico di Guzman, avvenuta nel 1217.

In seguito alla morte di Palma da Romano (1218), Mussetta ritornava agli Ezzelini.

Nel 1226 la siccità bruciò i raccolti e causò una moria di bestiame per mancanza di fieni; ne conseguì una terribile carestia.
[A. Battistella, La Repubblica di Venezia ne’ suoi 11 secoli di Storia, Venezia 1921]
Il 4 ottobre di quell’anno moriva ad Assisi san Francesco.

Coinvolta nella guerra tra il comune di Treviso e i Da Romano, nel 1234 Mussetta fu saccheggiata e gli scontri portarono alla distruzione del suo castello.

Nell’inverno del 1234 il gelo fece seccare la maggior parte delle viti e provocò un’elevata moria fra il bestiame.

Nel 1239 Alberico da Romano si staccò dal partito filo-imperiale del fratello e occupò Treviso, mettendosi sotto la protezione papale; qui esercitò il potere in unione con gli alleati Caminesi per poi impadronirsi completamente della scena politica, in un crescendo di terrore e repressioni.

Il castello di Mussa intanto veniva ricostruito ai tempi di Ezzelino III da Romano.

Nell’anno 1248, un lustro circa dopo che Treviso aveva regalato alla repubblica di Venezia possedimenti di qua e là del Piave (Croce e Mussette) per mostrarsi grato al governo repubblicano, furono rettificati i confini delle diocesi e quella di Treviso si ebbe il territorio che aveva prima del 712, cioè del trattato fra Liutprando e Lucio Anafesto, e (una parte di) S. Donà passò dalla diocesi d’Eraclea a quella di Treviso senza tener conto del trattato con Ottone III. Tale notizia è recuperata dal Plateo.

Ma prima deviamo verso la leggenda.