Eroi della Resistenza

Carlo Vizzotto (1924-1945)

Nato nel 1924 a San Donà in zona Ereditari – il primo “Matausen” di San Donà - zona di baracche per gli sfollati della Grande Guerra, era l'ultimo di 12 tra fratelli e sorelle: la sua era una famiglia che oggi diremmo "allargata"; il padre Ferdinando, detto Nano, aveva avuto cinque figli dalla prima moglie e sette ne ebbe dalla seconda, Caterina Morando, detta Àngea.
Nano, del 1866, veniva da Cornuda, faceva il bracciante, e verso la fine del 1800, con la prima moglie e due figli, era emigrato in Brasile, a San Paolo, senza fortuna perché subito gli piovve addosso la disgrazia più grande che potesse capitare a una famiglia povera: la moglie morì, e così nel 1900 Nano tornò a San Donà, un mese di bastimento, con una bimba di tre mesi in braccio.
Pochi anni dopo Nano sposò Àngea, tredici anni più giovane di lui.
Nel 1917 la famiglia viveva nelle Case di Guarinoni, lungo l’argine della Piave, ma dopo la disfatta di Caporetto venne sfollata a Napoli nel comune di Vico Equense; là nacque Luigi.
Da notizie riportate in famiglia (e raccolte da Edi Gonella), a Napoli i Vizzotto stettero bene, ben voluti dalla gente del posto: non mancava il cibo, ma mancava tutto il resto! La figlia che nacque nel 1921 a San Donà fu chiamata Filomena in ricordo delle belle persone conosciute laggiù; qui divenne Olga, nome russo.
Queste le notizie che Edi Gonella ha raccolto sui fratelli maggiori di Carlo:
  • Fioravante partecipò alla Grande Guerra e dopo la rotta di Caporetto fu fatto prigioniero in Cecoslovacchia.
  • Mario, ragazzo del ‘99, partecipò anche lui alla Grande Guerra; poi fece il muratore e lavorò alla ricostruzione del campanile di San Donà. Un giorno gli cadde una pietra sopra l'unghia della mano e gli scappò una bestemmia, e sfortuna volle che lo udisse Monsignor Saretta: “Chi è stato?”; “Sono stato io, Monsignore”. “Che sia subito licenziato!” ribatté Saretta. Il capocantiere, che sapeva quanto bravo fosse Mario, lo rassicurò e lo mandò a lavorare sulla punta del campanile, ché tanto “là sopra il Monsignore non viene!” E così Mario continuò a lavorare sul campanile, e dopo la posa dell’Angelo, aspettando di scendere per ultimo, incise con un chiodo, per dispetto, il suo nome su una pietra.
  • Antonio, con quattro amici stanchi come lui di non riuscire a trovar lavoro e come lui altrettanto avventurosi, nel mese di dicembre di un anno imprecisato pedalò in bicicletta fino a Roma per chiedere un posto di lavoro a un certo Ministero; i quattro dovettero impietosire qualcuno se riuscirono a ottenere quattro biglietti per tornare a casa in treno, ma sempre senza alcun lavoro. Antonio non si diede per vinto e andò a lavorare in Libia, mandando a casa il denaro guadagnato.

Quando Antonio tornò dalla Libia la sua storia tornò a coincidere con quella famiglia: mamma Àngea, con enormi sacrifici, gli aveva messo da parte i soldi guadagnati, così che Antonio riuscì ad acquistare un campo di terra in via Calnova, oggi via Pascoli, vicino al campo dei Pacquola. Lì la famiglia Vizzotto si costruì una baracca. Poi l'amico Gordiano Pacquola, tornato dal carcere di Castelfranco Emilia, vendette ad Antonio una parte del suo campo affinché potesse anche lui costruire la sua casa.

L’8 settembre del ’43 i soldati abbandonarono la Caserma San Marco a San Donà e tutta la popolazione dei dintorni corse ad arraffare qualcosa da portare a casa: le sorelle Olga e Lina portarono a casa alcune coperte e un cappotto; Carlo e due amici presero una pistola ciascuno, sotto lo sguardo di disapprovazione degli adulti.

Qualche tempo dopo, la polizia fascista giunse di notte ad arrestare Gordiano ma sbagliò baracca e circondò quella dei Vizzotto; dentro stavano tutti zitti e papà Nano, un po' sordo, non capendo cosa stava succedendo più volte chiese: “Ma chi è? Cosa volete?”. I poliziotti, indispettiti, iniziarono a battere col calcio dei fucili sulla porta, ma intanto la confusione che andò per le lunghe consentì a Gordiano di scappare e di darsi alla macchia, iniziando la sua lotta partigiana.

Due mesi dopo la Repubblica Sociale chiamò alle armi le classi 1923, ’24 e ’25: “per chi non si presenta, così come per i militari in forza l’8 settembre è previsto: pena di morte e rappresaglie contro le famiglie.” Così recitano i cartelloni. Carlo deve partire, i genitori non vorrebbero; Carlo non teme per sé ma, dopo le minacce giunte alla famiglia, teme per il padre anziano – ha già 77 anni – e decide di arruolarsi nell'esercito della RSI, sperando che sia per poco tempo.
Il 3 marzo del ’44 il battaglione San Marco arriva ad Oropa, in provincia di Vercelli; le montagne intorno sono piene di neve. Carlo scrive a casa: sta bene, è fuori dai pericoli, mangia discretamente, addirittura dorme su un materasso di lana. “Cara mamma per il momento si resta dove siamo ma fra qualche mese si dovrà cambiare ma non si sa dove ci manderanno, vi farò sapere, non state in pensiero per me che sto bene”.
Per non far differenze tra mamma e papà il 14 marzo spedisce due cartoline di Oropa, una ciascuno.


Il 17 marzo di nuovo scrive, arrabbiato perché non ha ricevuto ancora risposta, se non si riceve risposta tanto vale non scrivere più. Ma scrive “cara mamma puoi mandarmi qualche cedola per il pane perché il pane che ci danno è poco?”.

Il 28 marzo non ha ricevuto né cedole per il pane né lettere, per cui è costretto a scrivere una cartolina per informare la famiglia che lui e altri saranno mandati in Germania.

Non si sa bene in quale campo di lavoro o di addestramento tedesco sia finito, l'indirizzo per raggiungerlo è: Feldpost (posta da campo) n. 86155/C.
Vi rimane per quattro mesi.
Oltre a far lavorare gli italiani dalla mattina alla sera, i tedeschi li addestrano a usare le armi; Carlo si impegna, le armi gli sono sempre piaciute. Al campo si mangia poco e male, e la nostalgia di casa è insopportabile.
Quando scrive a casa sa che deve rispettare due regole: la prima è di non far star in pensiero i familiari; la seconda è di pesare attentamente le parole perché i tedeschi non si fidano dei lavoratori italiani.
“Cara mamma ti faccio sapere che la vita dove mi trovo adesso è un po’ dura, ma saprò sopportare qualsiasi fatica, intanto se mi mandate una foto di tutta la famiglia perché mi pare un secolo che non vi vedo. Spero nel mese di luglio di essere tra di voi per qualche giorno, tanti cari saluti ai miei nipotini Sergio e Giuseppe”; per evitare che lo censurino si limita a scrivere che “si mangia diversamente”; oppure, se non riesce a mentire, “perdonate se vi scrivo così male ma sono stanco perché dalla mattina alla sera sono sempre in cammino”. A casa capiscono e gli arriva qualche pacco con dentro vestiario, cibo e sigarette.

Passano i mesi, lunghissimi; verso la fine di luglio '44, nemmeno il tempo di avvertire i familiari, assieme ad altri commilitoni è caricato su un treno che li porta in Italia.

Il 3 agosto scrive alla famiglia che è arrivato a Savona e, avendo ritrovato gli amici sandonatesi Luigi Lucchetta e Antonio Gardiman, prega i familiari di portare i saluti alle famiglie dei due amici. Però non scrive che, insieme ad altri compagni, è scappato dal reparto militare per unirsi ai partigiani della 3^ Brigata d’assalto “Garibaldi” Divisione “Gin Bevilacqua”. Tuttavia scrive: “Cara mamma, fatti coraggio e non pensare male di me, vedrai che io farò il mio dovere, mi farò rispettare e saprò sempre cavarmela in qualsiasi situazione perché ormai sono pratico della mira. Stai allegra mamma così starò allegro anch’io”. Le lettere dei partigiani della zona vengono spedite da Savona; per ingannare i nazi-fascisti nelle lettere si danno indicazioni geografiche sbagliate; Carlo scrive che si trova in una villetta vicino al mare.
Sono comunque poche le lettere che scrive negli otto mesi di guerra partigiana sulle montagne intorno a Savona; con le quali informa che mangia solo castagne lesse e dorme su un letto di aghi di pino, ma tutti hanno una voglia matta di dare il loro contributo per la liberazione della nostra Patria.
Carlo ha preso il nome di battaglia “Tarzan”, giusto per far capire chi è: allegro, sempre pronto a dir di sì a ogni richiesta dei compagni superiori. Si presta a fare di tutto, anche la staffetta, correndo su e giù per le montagne per portare gli ordini alle altre compagnie di partigiani; e, visto che in Germania ha imparato a usare le armi tedesche, gli viene assegnata la prima mitragliatrice catturata ai tedeschi, da cui non si separerà mai.
Arriva l’inverno, con la neve e il freddo duro della montagna; non è più il tempo di scrivere a casa, è solo il tempo della lotta: vede il sangue dei compagni feriti o uccisi, la miseria della gente che vive nei paesini isolati e che gli regala ai partigiani una patata lessa, accettata per fame, ma si capisce capisce che chi te la offre ha più fame di te.
Alla mattina dopo un surrogato di caffè e una mezza sigaretta è pronto a iniziare la sua giornata di battaglia, senza sapere se arriverà vivo alla sera.
Il compagno Giorgio, quello che gli porta le munizioni per la mitragliatrice, una mattina di febbraio, quando il freddo si fa sentire più del solito, forse mentre beveno il solito surrogato di caffè per scaldarsi, gli regala una cartolina che ha comprato il giorno prima giù in paese, a Rocca Barbena, e gli dice serio: fai sapere ai tuoi che sei ancora vivo.
Così Carlo scrive: “2 febbraio 1945 saluti vostro figlio Carlo”. Sono le sue ultime parole alla famiglia. Viene ucciso l’8 marzo 1945 nella zona di Calizzano e Bardineto in provincia di Savona in un rastrellamento dei comandi nazi-fascisti.

Così Edi Gonella, immedesimandosi nella mente di Carlo, immagina la fine della storia:

Un mese dopo la brigata, in una fortunata operazione, riesce a catturare il capo dell’addetto al servizio spionaggio a favore della brigata nera e della SS tedesca; che euforia quel giorno, oltre alla primavera che arrivava piano piano, si sentiva nell’aria che presto sarebbe finita questa maledetta guerra! Pacche sulle spalle e abbracci prima di provare a dormire dopo tanta eccitazione.
Ho dormito poco e male stanotte, fa freddo ma mi sono svegliato tutto sudato, nel buio di una notte senza luna, con gli occhi aperti penso al sogno appena fatto: sono arrivato a casa mia, entro in cucina e vedo mio papà seduto su una sedia con la testa bassa che strizza il cappello della festa come dovesse fargli uscire acqua e continua a strizzare senza dire una parola. “no papà che lo rovini!” tento di dirgli, ma lui non mi sente e neanche mi vede.
Allora vado vicino alla mamma seduta vicino alla stufa, ma mi volta le spalle, vedo solo il suo fazzoletto nero che copre i capelli bianchi, sento che piange, faccio il giro della sedia ma non riesco a vedere il suo viso… sarà l’eccitazione dei giorni prima, penso.
Mi lavo il viso per lavare via il brutto sogno e mi preparo a ricevere gli ordini del giorno: controllare la sponda nord della montagna tra Calizzano e Bardineto.
Io e Giorgio partiamo contenti, si alza anche un bel sole di primavera, camminiamo spediti su e giù per i pendii della montagna, scherzando sulle morose che abbiamo lasciato a casa e ascoltando gli uccellini che si stanno svegliando in mezzo agli alberi.
All’improvviso verso mezzogiorno si sentono da lontano arrivare soldati che urlano ordini e latrati di cani. Poco dopo siamo in mezzo a raffiche di mitragliatrici.
Io e Giorgio ci nascondiamo dietro a un albero; io inizio a mitragliare nella direzione da dove arrivano gli spari… all’improvviso sento alle spalle un fischio sordo, come il rumore di un ramo secco che si rompe… sento caldo sulla schiena e le gambe non mi reggono più… l’odore del muschio si fa intenso, in bocca il sapore della terra e il sole si spegne nei miei occhi… mamma aiuto, aiuto mamma, mamma!

Tarzan viene sepolto dai suoi compagni sotto un pino in montagna, in una bara fatta di cassette per la raccolta dell’uva e ricoperto da rami di pino.

Dopo la liberazione, la famiglia inizierà le ricerche del figlio disperso.

Nel mese di novembre 1945 il C.N.L. li informerà della morte del loro Carletto.

Sarà il C.N.L. che metterà a disposizione un autocarro Lancia per consentire ai fratelli Olga e Luigi di recarsi in Liguria e riportare il loro fratello a riposare nel cimitero di San Donà di Piave.
Ai primi di dicembre del 1945 a San Donà di Piave viene celebrato il funerale del partigiano Tarzan.