Eroi della Resistenza

I 13 Martiri di Ca' Giustinian (28 luglio 1944)

Dopo l’8 settembre 1943, una prima organizzazione antifascista, il C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) sandonatese si costituì subito nel palazzo municipale di San Donà, ma ebbe pochi giorni di vita pubblica: ci fu l’occupazione tedesca, e il CLN locale, così come i G.A.P. (Gruppi di Azione Patriottica) e le brigate partigiane, dovette agire clandestinamente.
Nella zona di San Donà si formarono i battaglioni partigiani di Eraclea, di Caorle e “del Piave”, che confluirono nella “Brigata Piave”. A Ceggia si costituì la “Brigata Pellegrini”, a Mestre la “Brigata Ferretto” e la “Cesare Battisti”, a Venezia le brigate “Matteotti” (socialista), “Garibaldi” (comunista) e “Giustizia e Libertà” (del Partito d’Azione).

Alfredo Vivian, veneziano, insieme a Ruggero Pavanello e a Piero Pelizzato, diede vita a un gruppo partigiano operante a Venezia e nella zona di San Donà di Piave, gruppo costituito, nel novembre del 1943, da una sessantina di uomini.
Nel sandonatese la lotta clandestina si organizzò in particolare nei G.A.P., specializzati e organizzati in sabotaggi, guasti, colpi di mano. I Gruppi di Azione Patriottica erano essenzialmente gruppi di partigiani comunisti; ma a San Donà i comunisti andavano tutti a messa. “La presenza di un affiatato gruppo cattolico-comunista, che sarà quello ad offrire il maggior contributo di uomini nell’eccidio di Ca’ Giustinian rappresentò il nucleo della resistenza sandonatese e seppe superare in se stesso e nelle popolazioni le difficoltà di una diversa impostazione ideologica” .

ATTENTATO AI TRENI E ALLA CASA DEL FASCIO

Il 20 dicembre 1943 ci fu un atto terroristico compiuto sulla linea ferroviaria tratto Ceggia-San Donà di Piave.

Il 30 dicembre 1943 ci fu l’esplosione di un ordigno collocato su un vagone di un treno sulla linea ferroviaria Ceggia-San Donà di Piave.

L’11 gennaio 1944 esplose un ordigno posto presso la Casa del Fascio di San Donà, il bell’edificio inaugurato nel 1926 all’angolo della piazza Indipendenza, sull’allora via Vittorio Emanuele (odierno Corso Silvio Trentin).

L’attentato si risolse in un fragoroso e innocuo scoppio. Dalle cronache dell’epoca:

“Intenzione degli autori, rimasti sconosciuti, credo fosse quella di danneggiare la sede del partito e nel tempo stesso di sopprimere il commissario.
La cosa accadde verso le sei della sera, ora in cui il capo del fascio soleva recarsi in ufficio.
La bomba ad orologeria, posta nell’atrio della casa, scoppiò mentre esso era deserto, senza arrecare eccessivi danni e senza ferimenti.
[...]

Gli attentatori scapparono verso via Ereditari. I fascisti e i tedeschi rastrellarono tutti i giovani che trovarono da quelle parti: Attilio Basso, Violante Momesso, Venceslao Nardean...”

“Le conseguenze si fecero sentire il giorno dopo, allorché poliziotti tedeschi e repubblicani venuti da Venezia procedettero all’arresto di una trentina di cittadini sandonatesi, prelevati così, a casaccio, secondo il solito sistema, e li tradussero al capoluogo, chiudendoli nel carcere di Santa Maria Maggiore.”

Scattò tuttavia la repressione. Nella sentenza della condanna a morte dei 13 di San Donà si leggerà l’imputazione di strage e di eccidio; non era vero: non si erano macchiati di tali colpe e fu per colpa di un... come definirlo? Un tranello? Un tale Bedin da Cessalto, aveva spinto uno di loro, il Nardean, a compiere un attentato lungo la ferrovia: il Bedin gli aveva detto trattarsi di una tradotta, in realtà era un treno passeggeri e quando il Nardean lo venne a sapere riuscì a disinnescare tutte le mine meno una che però non provocò alcuna vittima [si tratta dell’attentato del 30 dicembre 1943]. La spia, che si era insinuata nel gruppo clandestino approfittando della generosità di Bertazzolo, certa di essersi bruciata con quella notizia falsa, cominciò a temere per la propria vita e chiese alle forze fasciste di intervenire. E, così, la notte dell’undici gennaio 1944, quando venne lanciata una bomba di carta all’interno della Casa del Fascio, la trappola scattò.

L’ARRESTO E IL CARCERE

Furono arrestati coloro che furono beccati quella notte, ma per rappresaglia e con loro furono arrestate anche altre persone, tra cui delle donne, per un totale di 22. Cominciò per loro il calvario. Prima furono portati nella caserma dei carabinieri a S. Donà, poi a Venezia ai SS. Apostoli, infine a Santa Maria Maggiore, il tremendo carcere veneziano, vecchio e scomodo, caldo d’estate e freddo d’inverno, che nell’ultima parte della guerra ospitò soprattutto i prigionieri politici di tutto il Nord Italia. Gli arrestati subirono torture, interrogatori e sevizie.
Leggiamo in un notiziario del 20 gennaio 1944:

L’11 corrente veniva fatto esplodere un tubo di gelatina presso la sede del Fascio Repubblicano di S. Donà di Piave. Sono stati arrestati 22 individui, tra cui il capo di una cellula comunista, tale D’ANDREA, e sequestrato un quantitativo di esplosivo e di armi. La Questura di Venezia, in data 22 gennaio 1944, parlava dell’ arresto di elementi costituiti in cellula comunista e suddivisa in tre squadre di azione della gioventù antifascista in San Donà di Piave responsabili anche di attentati terroristici ed atti di sabotaggio nonché di possesso di armi, munizioni ed esplosivi.

Il documento della Questura citava i nomi di nove arrestati: Alfredo Vivian, Ernesto D’Andrea, Venceslao Nardean, Francesco Biancotto, Violante Momesso, Angelo Gressani, Stefano Bertazzolo, Giovanni Tronco, Giovanni Tamai.
Sappiamo anche le motivazioni per l’arresto di ciascuno di loro:

(trascrivere i verbali del 22 gennaio 1944)

Per sette di loro (D’Andrea, Nardean, Biancotto, Momesso, Gressani, Tronco, Tamai) sappiamo il motivo della cattura da un documento della Questura di Venezia del 22 gennaio 1944, firmato dal capo della provincia Cagetti, che ha per oggetto: “Arresto di elementi costituiti in cellula comunista e divisi in tre squadre di azione della gioventù antifascista in S. Donà di Piave responsabili anche di attentati terroristici ed atti di sabotaggio nonché di possesso di armi, munizioni ed esplosivi”.

“Attilio lo andarono a prendere in Banca il giorno dopo. Lui non era un brigatista; ma non si era mai voluto iscrivere al Partito Fascista. Aveva un bel lavoro. Quindi immagino che sia stato preso a seguito di denunce, a causa di invidie...”
[testimonianza di Attilio Basso, figlio naturale di Attilio Basso]

“Sembra che si vendicarono di mio zio Attilio perché era fratello di mio padre, Placido Basso, che era entrato in clandestinità”
[Paolo Basso, figlio di Placido]

Leggiamo, in un altro notiziario, del 28:

In questi giorni, in S. Donà di Piave, i carabinieri agendo in collaborazione con elementi della 49a Legione della G.N.R. hanno arrestato altre 21 persone responsabili di atti terroristici colà compiuti. Parte degli arrestati sono rei confessi. Entro il mese corrente, detti terroristi avrebbero dovuto porre in atto i seguenti altri attentati:
- far saltare il ponte stra[da]le sul Piave, in S. Donà di Piave;
- far saltare il ponte ferroviario sul Piave;
- far saltare le scuole con tubi di gelatina;
- svaligiare la locale banca cattolica;
- uccidere alcune autorità politiche fasciste.

Il “Gazzettino di Venezia” del 3 febbraio elencava quindici nomi: oltre a quelli indicati dalla Questura, adesso comparivano quelli di Attilio Basso, Amedeo Peruch, Giovanni Felisati, Rizzieri Bragato e Angelo De Nobili.

Il numero primitivo di 22 (o 21) un po’ alla volta si assottigliò e si ridusse a 13.

I tredici erano Ernesto D’Andrea (30 anni), considerato uno dei capi, Venceslao Nardean (19 anni), Francesco Biancotto (non ancora 18 anni), Violante Momesso (poco più di 23 anni), Angelo Gressani (quasi 48 anni, di Ceggia), Giovanni Tronco (di 39 anni), Giovanni Tamai (di 20 anni), Attilio Basso (poco più di 22 anni), Stefano Bertazzolo (19 anni), Giovanni Felisati (35 anni di Carpenedo), Enzo Gusso (30 anni), Gustavo Levorin (di 38 anni) e Amedeo Peruch (di 38 anni). Per i primi sette di loro (D’Andrea, Nardean, Biancotto, Momesso, Gressani, Tronco, Tamai) sappiamo il motivo della cattura dal documento della Questura di Venezia del 22 gennaio 1944 riportato sopra.
Gli altri erano comunque tenuti sott’occhio dalla polizia fascista. Con loro fu catturato Alfredo Vivian, che aveva messo in piedi la cellula sandonatese. In particolare, Venceslao Nardean fu accusato di essere uno degli esecutori degli attentati organizzati dagli uomini di Vivian, di detenzione di esplosivo, di due moschetti e relative munizioni e, infine, di appartenere ai Gap.

Ma chi erano in dettaglio i Tredici? E quale criterio scegliere per raccontare qualcosa di loro?
Quello alfabetico? L’elenco suonerebbe così: Basso, Bertazzolo, Biancotto, D’Andrea, Felisati, Gressani, Gusso, Levorin, Momesso, Nardean, Peruch, Tamai, Tronco.
Quello anagrafico? Dal più giovane al più vecchio o viceversa? Nel primo caso la lista suonerebbe così: Biancotto (2 aprile 1926), Tamai (1924), Nardean (14 ottobre 1924), Momesso (6 maggio 1923), Basso (9 settembre 1921), Bertazzolo (6 febbraio 1919), D’Andrea (10 dicembre 1913), Gusso (1913), Felisati (1909), Peruch (25 novembre 1905), Levorin (6 ottobre 1905), Tronco (7 aprile 1905), Gressani (29 febbraio 1896)

Non ho un criterio. Scelgo quello alfabetico.

ATTILIO BASSO, nato a S. Donà di Piave il 9 settembre 1921, aveva 22 anni quando fu arrestato. Era fattorino di banca. Profondamente religioso, cattolico praticante, per natura tranquillo e contrario alla lotta armata, aveva collaborato tuttavia coi partigiani. Abitava alle Muraziole, a Tessere [nella casa che è oggi “Villa Elettra”]; nella casa vicina, quella che si incontra prima arrivando dal centro abitava Violante Momesso.
Attilio fu arrestato nel gennaio del 1944, il giorno dopo l’attentato alla casa del Fascio: quella sera i familiari non lo videro tornare a casa.
Dopo l’arresto fu ripetutamente torturato e in cella contrasse la tubercolosi, probabilmente anche causa delle sevizie; fu ricoverato, due mesi dopo l’arresto, all’ospedale di Venezia, dove finalmente i familiari poterono rivederlo, ferito alla testa e molto malato.
Lasciò un figlio che stava per nascere, che non conobbe mai, e che fu riconosciuto dal fratello, che sposò la vedova di Attilio.

STEFANO BERTAZZOLO era nato a Carrara S. Giorgio (Padova) il 6 febbraio 1919 (aveva dunque quasi 25 anni quando fu arrestato), ma risiedeva con la famiglia a S. Donà di Piave. Era un contadino, ma tornato dalla guerra (dove aveva contratto la tubercolosi) non aveva potuto tornare a lavorare la terra a causa delle sue condizioni fisiche; invalido di prima classe, era riuscito a farsi assumere come impiegato in uno zuccherificio. Era iscritto al Partito Comunista e ritenne suo dovere prendere parte alla guerra partigiana. Volontario in moltissime azioni, si dedicò al trasporto di armi e munizioni ai suoi compagni, svolgendo un’autentica azione cospirativa. Venne arrestato nel gennaio del 1944 e, secondo il documento della Questura, doveva rispondere di “detenzione di esplosivo (gelatina, capsule di innesto a miccia ed elettriche) e di una pistola con le relative munizioni”. Fu imprigionato, come gli altri, a S. Maria Maggiore. A causa della tubercolosi avrebbe trascorso quasi tutta la prigionia in sanatorio.


FRANCESCO BIANCOTTO, nato a S. Donà di Piave il 2 aprile 1926, non aveva ancora 18 anni in quel gennaio 1944. Era un giovane falegname, comunista. Coraggioso, profondamente antifascista, aveva aderito con entusiasmo al Gruppo di Azione Patriottica di San Donà, “per non andare in guerra”, dirà un cugino di terzo grado. Incaricato di far saltare una tradotta di militari tedeschi, andò a minare un binario. Quando il convoglio era ormai vicino si accorse che invece della tradotta si trattava di un treno passeggeri che la precedeva. Si gettò allora disperatamente sui binari per togliere la mina, con gravissimo rischio della sua vita. “Piuttosto di far morire un civile preferirei perdere la vita” disse in quella o in un’altra occasione. “Fu arrestato durante un rastrellamento nei pressi di Fossalta di Piave” racconterà il solito cugino. La causa del suo arresto (che conosciamo dal documento della Questura di Venezia) è la seguente: “Complicità nell’atto terroristico compiuto sulla linea ferroviaria tratto Ceggia-San Donà di Piave il 20/12/43, per furto di una bicicletta e per detenzione di esplosivi (gelatina esplosiva, miccia, detonatori), di moschetti e relative munizioni. Arrestato, gli fu promessa la libertà immediata in cambio di una confessione; lui rispose: “Fucilatemi pure, se volete, ma io non tradirò mai i miei compagni”.

ERNESTO D’ANDREA era nato il 10 dicembre 1913 a Musile di Piave (Venezia); ed era residente a San Donà di Piave. Aveva bitato a Croce di Piave quando i genitori gestivano il Bar del Casello. Il padre, Giovanni D’Andrea, era la “guardia” del comune di Musile di Piave, ed era persona di chiare simpatie fasciste, Ernestino ebbe fin da giovane violenti scontri con il padre: Ernesto infatti era diventato un convinto militante comunista, decisione maturata probabilmente sul posto di lavoro, dato che lavorava come operaio in una fabbrica di Porto Marghera. Iscritto al Partito comunista, era capo della “cellula” comunista di San Donà di Piave; dopo l’armistizio organizzò in fabbrica e comandò il primo GAP (Gruppo di azione patriottica), che compiva sabotaggi all’interno dello stabilimento, oltre a numerose altre azioni e incursioni contro i fascisti.
Aveva preso parte, come comandante, a parecchie, rischiose imprese, ed era riuscito a sottrarre ai tedeschi una grande quantità di armi. Gli uomini che erano sotto il suo comando avevano in D’Andrea una fiducia illimitata, anche perché era sempre in prima linea in tutte le azioni di guerra. Arrestato nel gennaio del 1944, dal documento della Questura di Venezia, firmato dal capo della provincia Cagetti, possiamo conoscere il motivo della cattura: egli doveva rispondere di istigazione ad attentati terroristici quali “l’esplosione di un ordigno collocato su un vagone di un treno sulla linea ferroviaria Ceggia-San Donà di Piave il 30 dicembre 1943 e l’esplosione di un ordigno posto presso la Casa del Fascio di San Donà l’11 c.m.”. Fu rinchiuso in una cella delle carceri veneziane di Santa Maria Maggiore, a disposizione del Tribunale speciale per eventuali rappresaglie.

GIOVANNI FELISATI era nato a Mestre nel 1909 e risiedeva a Carpenedo. Soprannominato “El Moro”, era sposato con Anna Peruzza. Fu descritto come un uomo buono e generoso. Lavorava ai forni di Montevecchio ed era iscritto al partito comunista da molti anni. Era stato un instancabile propagandista e organizzava la lotta al fascismo nel mestrino e nel sandonatese insieme ad Alfredo Vivian ed Erminio Ferretto. Felisati si occupava di trasferire da una parte all’altra munizioni ed esplosivi, che nascondeva anche in casa sua, a Carpenedo, dove avvenivano incontri e convegni di antifascisti. Questa attività durò però pochi mesi perché nel settembre del 1943 venne arrestato: in casa gli trovarono una certa quantità di materiale esplosivo; venne trattenuto nel campo dei Gesuiti con la moglie Anna.

ANGELO GRESSANI, nato ad Ovaro (Udine) il 29 febbraio 1896, abitava a Villa Santina; nel 1940 si era trasferito a Ceggia. Aveva tre fratelli: Edoardo, Fortunato e Giovanni. Faceva l’orefice ed era sposato con Angela Baldo, dalla quale aveva avuto due figli: Aldo Aleandro e Alessandro. Il maggiore era nato nel 1920 e nel 1944 aiutava il padre nel lavoro, il piccolo nel 1944 aveva nove anni e frequentava la scuola elementare. Come racconta il libro “Rosso sulla laguna”, grazie a pazienti letture e sforzi di autodidatta, Angelo Gressani si era reso conto degli errori della dittatura fascista e perciò si era unito ai partigiani. Nelle formazioni partigiane si guadagnò subito la stima dei compagni e fu nominato tenente nella brigata “Piave”. Sfruttò la sua esperienza di orefice per inventare nuovi congegni di guerra che migliorassero quelli, poco efficienti, di cui disponevano i partigiani nei primi tempi. Inoltre riparava e collaudava le armi del suo gruppo d’azione. Fu arrestato nel gennaio 1944 e dal citato documento della Questura sappiamo che apparteneva alle squadre di azione della G.A.F. di Ceggia e doveva rispondere di “Propaganda comunista, di detenzione d’armi (un mitra e due pistole deteriorate)”. La nuora Eugenia Maria Cusin, che all’epoca era già sposata con il figlio Aleandro avrebbe raccontato ai ragazzini della scuola media di Ceggia andati a intervistarla che “Angelo Gressani, oltre ad essere un bravo orefice, era un uomo buono, gentile, generoso, comprensivo e intelligente”.

ENZO GUSSO era nato a S. Donà di Piave nel 1913. Nettamente contrario al fascismo, ne aveva sempre rifiutato la tessera: per questo non poteva essere assunto stabilmente, nonostante la sua preparazione professionale come impiegato; lavorò per conto terzi come contabile a San Donà. Considerato un agitatore, veniva sempre arrestato per qualche giorno in occasione delle manifestazioni fasciste. Era iscritto al clandestino Partito d’Azione. Anche il fratello Giuliano era impegnato nella lotta partigiana. Enzo Gusso e alcuni compagni furono arrestati, probabilmente traditi, dopo una riunione al bar Paolin.

GUSTAVO LEVORIN, nato a Padova il 6 ottobre 1905, era un operaio tipografo e segretario della Federazione veneziana del Pci. Arrestato a Trieste nel 1928, era finito davanti al Tribunale Speciale per la sua attività antifascista, e condannato a cinque anni di galera, era tornato libero dopo tre anni di reclusione. Uscito dal carcere riprese immediatamente il suo posto di lotta, anche se fu soggetto a continue persecuzioni. Sino alla caduta del fascismo rimase un “sorvegliato speciale”. L’8 settembre 1943 andò a Mestre, incaricato dal suo partito dell’organizzazione delle prime squadre di patrioti. Si impegnò parecchio nell’attività riuscendo a organizzare numerosi nuclei armati di operai e contadini mestrini. La sua attività era troppo vasta e multiforme per passare inosservata. Era ispettore delle Brigate Garibaldi quando fu arrestato, nel gennaio 1944, insieme con altri patrioti, nella zona di San Donà di Piave. Aveva 39 anni.

VIOLANTE MOMESSO, figlio di Pietro e di Maddalena Gobbo, era nato a Noventa di Piave il 6 maggio 1923 ed era residente a San Donà di Piave (VE) alle Muraziole, vicino alla via che oggi porta il suo mome. Da giovane aveva fatto il contadino. Aveva fatto il militare nel “Genio guastatori” a Verona e aveva aderito Partito comunista clandestino; tornato a casa, voleva fare, di tutti i contadini che vivevano poveramente come lui, dei comunisti. Trovò invece la guerra di liberazione partigiana: nell’ottobre del 1943 si arruolò nei G.A.P. di San Donà, quindi si aggregò ai partigiani della Brigata “Piave” (o “Venezia”?), occupandosi di propaganda, raccolta di materiale bellico e reclutamento. Partecipò a numerose azioni di sabotaggio delle vie di comunicazione e trasportò ai combattenti della montagna, a Follina, a Castelfranco, a Conegliano, le armi che assieme ai compagni riusciva a procurarsi.
L’11 gennaio 1944 fu arrestato mentre si trova a San Donà di Piave per rispondere di “Detenzione di esplosivo (la gelatina-capsule di innesto, a miccia ed elettriche)”.
Fu incarcerato nel penitenziario veneziano di Santa Maria Maggiore.

VENCESLAO NARDEAN era nato a Noventa di Piave il 14 ottobre 1924 ed era e residente a San Donà, dove lavorava come falegname.
Era un ragazzo intelligente. Apparteneva alle squadre di azione comunista della G.A.F. di San Donà. Svolgeva attività di propaganda antifascista facendo volantinaggio. Preparava da solo i manifesti che, sempre senza aiuto, affiggeva di notte sugli alberi e sui muri un po’ per tutta la città. La sorella avrebbe ricordato: “Nostra madre gli trovava dei volantini in tasca, ma non molto di più”. Dal citato documento della Questura di Venezia risulta che egli fu l’autore di atti terroristici compiuti sulla linea ferroviaria Ceggia-San Donà.
Doveva poi rispondere di “atto di sabotaggio sulla linea Trieste-Venezia (non verificatasi per mancata esplosione dell’involucro esplosivo), di furto di una bicicletta, di detenzione di esplosivo (gelatina esplosiva, miccia, detonatori), di due moschetti e di munizioni”.
Il libro “Rosso sulla Laguna” di U. Dinelli racconta che egli era stato incaricato dai compagni lotta di gettare un involucro di dinamite contro la Casa del Fascio, mentre si svolgeva una riunione di fascisti. L’esplosione provocò danni, ma non ferì nessuno; anzi, i fascisti riuscirono a scorgere Nardean mentre fuggiva in bicicletta verso un’osteria dove poi fu trovato e arrestato.
Questa versione però contrasta però con quella che la sorella Beppina, che allora aveva 17 anni, avrebbe fornito in seguito: “L’hanno portato via di notte da casa, ci hanno fatto alzare dal letto e hanno perquisito la casa. Pare che avessero trovato delle armi sotto il materasso. Fu arrestato e portato in carcere. Anche la mamma fu condotta in prigione, dove rimase per alcuni giorni, poi stette male e la rimandarono a casa. Mentre si trovava in carcere sentivano le torture inflitte ai ragazzi”.

AMEDEO PERUCH, nato a Musile di Piave (Venezia) il 25 novembre 1905, faceva il contadino. Pur essendo cattolico praticante fu attivo nel Partito comunista clandestino; al momento dell’armistizio era entrato a far parte dei GAP di San Donà di Piave, che gli affidarono la custodia delle armi del Gruppo. Il contadino aveva nascosto il piccolo arsenale in una sorta di deposito per gli attrezzi agricoli, situato presso la cascina nella quale abitava con la moglie, Marcella Montagner.
Forse per una soffiata, nel gennaio del ’44 i fascisti arrivarono alla casa di Amedeo Peruch, che riuscì a non farsi sorprendere e a mettersi in salvo. Così i fascisti presero Marcella in ostaggio e, perché la liberassero, il contadino decise di consegnarsi spontaneamente. Rinchiuso nel carcere di Santa Maria Maggiore, dopo alcuni mesi fu processato dal Tribunale speciale, che lo mise “a disposizione per rappresaglie”.

GIOVANNI TAMAI era nato a S. Donà di Piave nel 1924, dove viveva. Faceva l’operaio tessile e poiché la sua famiglia era molto povera era stato costretto a lavorare fin da bambino; non avendo potuto frequentare la scuola era perciò analfabeta. Conobbe in fabbrica compagni di lavoro comunisti e condivise le loro idee. Divenne partigiano e prese parte a numerose azioni contro i tedeschi. Quando fu arrestato, nel gennaio del 1944 aveva 20 anni. Il già citato documento della Questura lo accusava di essere “un componente della cellula comunista delle squadre di azione G.A.F. (gioventù antifascista) di S. Donà di Piave”. Dopo l’arresto fu bastonato con violenza per diversi giorni e poi fu portato in carcere.

GIOVANNI TRONCO, nato a S. Donà di Piave il 7 aprile 1905 a San Donà di Piave, era ivi residente. Sposato, aveva una bambina (Caterina, Caterinetta, Rinetta) cui era molto affezionato. Di professione fabbro era iscritto da lungo tempo al Partito comunista. Dopo l’armistizio era entrato a far parte della brigata Venezia, occupandosi principalmente della diffusione di stampa clandestina, del collegamento tra i vari nuclei della Resistenza veneziana e dell’espatrio degli ex prigionieri alleati. Arrestato a San Donà di Piave l’11 gennaio 1944, secondo il documento della Questura di Venezia doveva rispondere di “Detenzione di esplosivo (gelatina, capsule per innesto a miccia e elettriche), di vari moschetti, nonché di un rilevante quantitativo di munizioni per moschetto (circa 150 caricatori). Il predetto riceveva il deposito armi e munizioni che distribuiva poi secondo gli ordini che riceveva”. Fu immediatamente rinchiuso nelle carceri veneziane di Santa Maria Maggiore.

I TREDICI IN CARCERE

Taddeo Gaddi, che condivise con loro la prigionia, di alcuni dei tredici ci ha lasciato testimonianza. Di Gustavo Levorin scrisse: “Trasportato al carcere, organizza i detenuti politici, allaccia delle relazioni con l’esterno, ha buone parole per tutti... Non si abbatte mai”. Ai compagni che uscivano dal carcere, Levorin dava sempre un solo consiglio: intensificare la lotta contro i nazifascisti. Qualcuno a volte gli diceva: “Ma se noi colpiamo i fascisti e i tedeschi, qui a Venezia, non vi è pericolo di una rappresaglia per voi?” E lui rispondeva, sereno: “La mia vita non conta, colpite e colpite forte con tutti i mezzi”.
Di Giovanni Tamai il Gaddi ci dice che in carcere cercò di imparare a leggere e scrivere “facendo le aste”, aiutato dai compagni.
Ernesto D’Andrea cercava di mantenere i contatti con chi era riuscito a rimanere libero, per stimolarlo al combattimento.
Il giovanissimo Francesco Biancotto leggeva molto ed era piuttosto amico di un giovane ragazzo che era in cella con lui. Con loro era anche Giorgio Bolognesi che (nel “Mattino del Popolo” del 14 dicembre 1946) avrebbe così ricordato Francesco:

«Diventammo amici alla prima stretta di mano. In cella con noi c’era un ragazzetto di tredici anni, Rolando, arrestato per una bricconata, Francesco era il suo protettore, Rolando in cambio gli preparava la branda alla sera. Quando il buio impediva la lettura, Francesco si alzava e veniva alla mia branda a prendermi per la passeggiata. La passeggiata del pomeriggio era basata su un numero infinito di giri di quattordici passi, sullo stretto spazio tra le brande. A contarli ci pensava il prigioniero della cella sottostante. Nei primi giri gli dava disposizioni perché gli altri cinque abitanti prendessero posto nelle brande, si fermava un istante e invitava chi aveva fede ad unirsi in una preghiera strana che aveva letto sul libro dei “Tre Moschettieri”. Essa diceva: Ma verrà il Dio della liberazione perché Dio è giusto e forte se chi vi spera avrà delusione avrà pur sempre il martirio e la morte. Era stato Francesco a leggerla per primo e lui l’aveva insegnata agli altri. Ancora oggi nella parete della cella 108 devono essere leggibili quelle parole. Assolto il dovere religioso, lui stesso rimboccava la branda del piccolo Rolando, e di nuovo riprendeva la passeggiata con me. Era allora che lui mi raccontava della notte dell’arresto, del tradimento dei compagni lasciati fuori, della certezza della condanna a morte temperata da una leggera speranza di liberazione che si spegneva ogni giorno di più. Andavamo sotto braccio avanti ed indietro, finché le gambe non ci costringevano a sederci sull’orlo della branda a continuare le nostre confidenze con voce sommessa. Mi parlava della sua casa, della sua famiglia (e ricordava con affetto la buona sorella), e con affetto parlava dei suoi compagni e perfino di chi lo aveva tradito, parlava della notte della dinamite, degli interrogatori, della sua fede politica. E allora mi confessava i suoi dubbi sulle teorie politiche; mi confessava di ammirare Mazzini perché in Mazzini sentiva parlare di Dio e di libertà. Mi parlava del suo lavoro, del suo padrone che amava come un maestro, e del dispiacere di non poter più continuare ad apprendere l’arte che amava.
Quando lo sconforto lo prendeva allora intonava le canzoni rivoluzionarie che sapeva e che imparava. Le guardie lo minacciavano. Lui smetteva, ma poco dopo ricominciava.
In carcere Giovanni Felisati (“El Moro”) diventò amico dei giovani e in molti di loro seppe infondere fede ed entusiasmo. In carcere ebbe un comportamento ammirevole; e per quanto nessuna attività delittuosa fosse emersa a suo carico, tanto che le autorità repubblichine erano propense al suo rilascio, pur tuttavia la notte tra il 27 ed il 28 luglio fu visto partire calmo e sereno, assieme con i suoi compagni, verso il suo tragico destino. La notizia della sua morte destò, in quanti lo conoscevano, un senso di vivo e profondo cordoglio. Aveva trentanove anni.
I fratelli di Enzo Gusso lo andavano a trovare per portargli cibo e sigarette, “che poi divideva con i compagni di carcere”. Cercarono di ottenere la sua liberazione tramite l’intervento di un legale, con la motivazione delle sue precarie condizioni fisiche. Riuscirono solo a ottenere che fosse adibito alla biblioteca del carcere. Del primo periodo in carcere non si hanno notizie ma sembra che in seguito fu anche torturato. Davanti alle torture rispondeva: “Sono antifascista e odio i tedeschi perché proteggono i fascisti”. Dalla prigione mandò alcune lettere con richieste varie, ma senza alcun cenno alla situazione politica o su altre questioni soggette a censura. Riuscì comunque a mandare dei messagi durante le visite dei fratelli. In particolare alla sorella Dina disse “di rammentare questo nome: Eddie Taylor, in quanto in breve tempo sarebbero ritornati in corteo a San Donà e salutati come liberatori”. In carcere teneva discorsi dai quali si capiva che non dubitava della vittoria, della libertà e degli ideali democratici.
L’orefice Angelo Gressani fu trattato come un animale, picchiato senza pietà, torturato e picchiato a sangue, ma a ogni domanda che gli veniva posta dava un’unica risposta: “Non so niente”. La famiglia non ricevette mai alcun messaggio del loro congiunto dal carcere.

LETTERA DI VIOLANTE MOMESSO ALLA MADRE

Dalla mia prigionia

Anche questa volta spero di farvi avere questa mia lettera.
Cara mamma la mia salute è ottima 
così spero di tutta la nostra famiglia e la piccola Voli. 
Ma se tu mamma sapessi quanto ho lottato su questa mia gioventù 
per la mia famiglia e per una vera patria 
ora mi ritrovo su una cella ma devi sempre sorridere 
perché farò il bene della mia famiglia. 
Tutto passerà anche questa vita di tortura sotto queste belve fasciste 
che non finiscono mai dissetarsi del nostro sangue. 
Ma verrà un giorno che potrò baciarti te e famiglia, 
allora ti spiegherò bene cosa faceva su questa maledetta carcere 
e poi mi vendicherò perché un’idea è un’idea 
e non sarà capace nessuno al mondo troncarmela. 
Ti mando i più cari saluti te e famiglia 
un bacio alla piccola Voli 
ci vedremo presto.

LETTERA DI VIOLANTE MOMESSO

Dalla mia prigionia

Carissimi tutti,
Anche questa volta spero farvi avere questa lettera 
il quale porti a voi il buon stato della mia salute 
e così vorrei sperare che altrettanto fosse di voi tutti.
La nostra vita di prigionia è sempre la solita. Dico nostra 
perché siamo diversi compagni e ci rispettiamo come fratelli, 
dopo tanto tempo che siamo qui rinchiusi in codesta cella oscura 
che non vediamo luce da molto e molto tempo. 
Non vi posso nascondere che abbiamo anche qualche passatempo: 
come gioco di carte, dama ecc. però sempre clandestinamente, 
cioè co uno di noi sempre in guardia.
Ciò nonostante, codesti piccoli passatempi tengo sempre 
nel mio cervello tanti e tanti pensieri che mi rattristano assai.
Ma quando penso che siamo vicini molto vicini alla nostra ora, 
mi racconsolo e son più che certo che tutti in quell’ora 
scatteranno in piedi, impugneranno qualsiasi arma e colui 
che non l’adopera sarà un vile ed un codardo. Nessun pretesto 
vale per mancanza di armi; armi ce ne sono per tutti, bambini, uomini e vecchi; 
tutti debbono collaborare per cacciare, una volta per sempre da questo suolo, 
il barbaro tedesco invasore ed il tiranno fascista, in modo che si cancelli, 
ed al più presto la memoria ed il ricordo di codeste belve assetate 
ed affamate di carne umana.
L’ora per noi (già me lo sento) sta per suonare. Sorte triste e crudele.
Nessun essere umano può immaginare a quali patimenti e sofferenze 
noi siamo soggetti. Figuratevi che siamo rimasti, anzi ci hanno lasciato 
(i tiranni fascisti) per circa cinque giorni senza acqua. Da mangiare pochissimo. 
Acqua, acqua, ed un piccolo tozzo di pane.
Comunque mi do sempre coraggio perché come ho accennato precedentemente 
siamo vicini, molto vicini.
Digli, cara mamma ai miei compagni, che si tengano pronti 
ad ogni intervento e se occorre spargere anche del sangue per la libertà.
Un bacio a Wally ed un abbraccio a voi tutti

Aff. Figlio
Violante

I familiari di Venceslao Nardean non poterono far nulla per farlo liberare. Potevano solo andare a colloquio con lui una volta alla settimana, e gli portavano il cambio della biancheria. A volte la famiglia riceveva delle lettere che venivano cucite all’interno delle giacche. Sembra che venisse torturato per farlo parlare.

LETTERA DI VENCESLAO NARDEAN A... ?

Venezia 11-7-44
Bambina Cara
Con la presente ti faccio noto che la mia salute è ottima 
così spero sarà di te e tutta la tua famiglia. 
Mia Mamma giovedì scorso mi ha detto di tuo fratello Bruno, 
mi dispiace tanto, immagino quanto sia grande il dolore di tutti voi, 
ma non disperarti cara che se Idio vuole presto finirà tutto.
Mia sorella quando venne a colloquio mi disse che doveva imbucare 
una tua lettera, io però non l’ho ancora ricevuta, spero mi arriverà 
in questi giorni, sai ho tanta voglia di ricevere una tua, 
mi sembrano ormai passati anni dall’ultima ricevuta. 
Credimi quando leggo le tue lettere, mi sento invadere 
da una felicità, da un piacere, mai provato, 
perfino il tempo mi sembra passi più svelto e leggero, 
soltanto alla sera credo che neppure le lettere potrebbero togliere 
quel velo di malinconia che mi copre. Basta che guardi le stelle, 
pensando nello stesso tempo a una cara Bambina che amo tanto, 
che pensi ai suoi baci e [infine] all’impossibilità di vederti, 
perché le stelle lassù nel cielo comincino a coprirsi d’un fitto velo, 
ben presto però mi accorgo che non sono le stelle a coprirsi d’un velo, 
sono i miei occhi che si coprono di lagrime. 
Ma ora ti lascio perché se no va a finire che piango 
prima che venga sera. Ti bacio tanto tanto
assieme a tutti datevi coraggio
tuo Venceslao Nardean
Saluti ai [vicini]
così pure a tutti gli amici
Baci cari a te
Venceslao

LETTERA DI GIOVANNI TRONCO ALLA MOGLIE

Ti raccomando di essere forte, qualunque cosa possa accadere 
io sono rassegnato a tutto. Ti raccomando una sola cosa, 
di educare bene la bambina.

LETTERA DI GIOVANNI TRONCO ALLA FIGLIA CATERINA (RINETTA)

Cara Rinetta,
con la speranza che questa mia ti trovi in buona salute 
e sempre contenta e buona con la mamma e i nonni 
non piangere pel tuo papà che si trova da te lontano 
per un puro Ideale che speriamo presto verà il giorno 
della nostra liberazione. Ti racomando di stare buona. 
Caramente ti bacio 
tuo papà

LETTERA DI ATTILIO BASSO ALLA MADRE

Venezia, 24.7.1944

Cara Mamma,
Rispondo alla tua cara lettera, sono contento di sentire che tutti 
godete buona salute e così ti posso assicurare di me.
Cara mamma come ti ho già scritto che ieri abbiamo passato 
la visita per essere inviati in Germania, io appena sentito 
ho fatto una domandina al Direttore per avere un’altra visita al Dispensario. 
La domandina mi viene accettata e questa mattina mi ha portato a farmi fare 
la visita e passare i raggi; e allora li ho raccontato la faccenda come che è, 
che la passa da quà e fin quà e per non andare in Germania ha detto 
che mi faccia ricoverare in sanatorio e mi ha favorito, e mi ha detto 
"non pensare che ti faccio ricoverare" subito. 
Comunque io alla volta di martedì o mercoledì, passo al sanatorio. 
Io sono certo che tu fai subito dei castelli al riguardo. 
Perché conosco il tuo carattere ma io ci penso che rimanere qui 
ci va la pelle mentre se vado al sanatorio è l’unico posto per cavarmela alla meglio, 
ricordati che nella prossima settimana deve partire più di quattrocento persone 
prima di tutti i politici poi anche quelli dei resti comuni.
Dunque tu hai inteso che io sto benissimo e fra due o tre giorni 
vado al sanatorio e li stò finché mi mandano il mandato di scarcerazione da qui, 
oppure quando che finisce la guerra (così almeno sono libero) io me ne vengo a casa, 
che la fine della guerra non è lontana.
Dante [Violante] Momesso lo hanno fatto abile, appena capita l’ordine parte, 
potrebbe partire anche fra due o tre giorni, avverti quelli di casa sua anche Nardon [Nardean] 
andrebbe e tutti solo io e Bertanzollo rimaniamo.
Mi raccomando la Nives e se puoi comprale quello che più fa bisogno. [...]

Al momento dello scoppio della bomba a Ca’ Giustinian Attilio Basso, che si trovava di nuovo in sanatorio per le forti emottisi conseguenza della tubercolosi contratta in carcere, fu tuttavia ricondotto in carcere. Gli stava per nascere un figlio; Basso non era ancora sposato.
Malato di tubercolosi, che aveva contratto in guerra, Francesco Bertazzolo trascorse quasi tutti i sei mesi di prigionia in infermeria.
Gustavo Levorin era in carcere da sei mesi e si preparava ad affrontare la prova della deportazione in Germania quando fu prelevato dalla prigione.

L’ATTENTATO A CA’ GIUSTINIAN

La mattina del 26 luglio 1944, due partigiani (Franco Arcalli “Kim” e un’altra persona di 40 anni della quale non si conosce l’identità) appartenenti a un Gap veneziano – comandato dal partigiano azionista Aldo Varisco e appoggiato soprattutto dal socialista Giovanni Tonetti, il famoso “Conte rosso” – fecero un attentato dinamitardo contro la sede provinciale della Gnr (Guardia Nazionale repubblicana) a Ca’ Giustinian. La bomba di 80 kg fu trasportata all’interno dell’edificio in un baule, contenente sulla targhetta l’indirizzo di un ufficio di propaganda tedesco situato all’interno del palazzo. Così si evitò di insospettire i fascisti.
Originariamente di proprietà della famiglia Giustinian, il Palazzo passò nel ‘600 ai Morosini. Nel 1817 fu preso in affitto dal ricco Arnold Marseille che lo adibì a hotel di lusso (Grande Albergo Europa). Nel 1936 fu acquistato dal Comune. Inizialmente doveva essere adibito a Casinò, ma poi fu trasformato in un ritrovo per riunioni e feste di lusso.

Dopo la nascita della Rsi divenne sede della Gnr veneziana. All’interno del palazzo aveva sede l’Upi, (l’ufficio politico investigativo) cioè la polizia segreta fascista, dove furono torturati molti antifascisti e dove venivano decise le peggiori azioni criminali da parte fascista. Era il simbolo della repressione fascista insieme a Ca’ Littoria (sede del Pnf).
L’esplosione fu talmente forte da essere udita in quasi tutta la città e da danneggiare anche il vicino Hotel Bauer. Le vittime furono 14 tra militi e ausiliari fascisti.
La reazione fascista non si fece attendere.
Il Capo della provincia Piero Cosmin scrisse un comunicato dove si leggeva: “Venezia accomuna nell’identità del sacrificio i soldati germanici e i militi della Guardia nazionale repubblicana caduti sul posto del dovere. Vorremmo vedere il volto di questi criminali, vorremmo vedere se effettivamente appartengono alla razza umana tanto il loro gesto tradisce l’istinto di una bestia scatenata alla più bieca ferocia”. E il 28 luglio sul Gazzettino si legge un altro comunicato della Gnr: “La esecranda ed infame azione dinamitarda, che ha gettato nel lutto parecchie famiglie, compiuta il 26 u.s, da criminali al soldo del nemico, ha avuto come obiettivo principale la sede del comando provinciale della GNR in palazzo Giustinian. Non pietà per innocenti ed ignari, non scrupolo per la soppressione violenta di tante umili esistenze, han fermato la mano assassina di chi con freddo animo ha compiuto il gesto nefando, uccidendo i fratelli per obbedire al nemico”.
L’ipocrisia fascista si manifesta anche e soprattutto nelle parole: i fascisti morti vengono definiti vittime innocenti, militi caduti sul posto del dovere; mentre i partigiani vengono definiti criminali, assassini e bestie feroci.
Infine il comunicato fascista annuncia: “La coincidenza vuole che il Tribunale straordinario di guerra sia oggi chiamato a giudicare vari elementi, già assicurati alla giustizia della GNR, responsabili di complotto contro lo Stato repubblicano e autori confessi di azioni dinamitarde. L’esecuzione della sentenza che verrà emanata dal Tribunale speciale, sarà eseguita sulle stesse macerie di palazzo Giustiniani”.
Scattò cioè la rappresaglia. Alle 22,30 del 27 luglio dal comando della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana) giunse al carcere di S. Maria Maggiore l’ordine di inviare a S. Zaccaria le tredici vittime designate. Si tratta di partigiani della zona di San Donà. Non erano coinvolti nell’attentato di Ca’ Giustinian e non pendeva su di loro nessuna accusa particolare se non quella di essere antifascisti.

GLI ISTANTI PRIMA DELLA FUCILAZIONE

Giuseppe Gaddi, che la notte del 27 luglio era in carcere a S. Maria Maggiore con i compagni poi fucilati, dà questa testimonianza di quella notte:

“Verso mezzanotte sentii un tintinnio di chiavi, delle porte aprirsi (… ) poi lo sportello della mia cella viene aperto e una voce mi chiama: salto giù dalla branda e mi affaccio. Davanti a me sta la faccia bonaria di Giovanni Felisati, “el Moro”, come lo chiamavamo. Il suo volto è pallido; mi dice con voce triste: “Adio, compagno, gavemo perso la vita. I me copa, i ne copa in tredese. Tuti quei del grupo de San Donà. Te racomando mia mugier. Saludime tanto Nando (il fratello, che in realtà era morto da due mesi, senza che il Felisati lo avesse saputo) e dighe che se fassa coragio”. Cerco di incoraggiarlo, di dirgli che si sbaglia, che li portano via per altri motivi. Ma la mia voce trema; Giovanni mi stringe la mano e si allontana. Mi chiama Levorin: lestamente mi restituisce una strisciolina di carta, la lista dei recapiti delle formazioni partigiane che gli avevo passato al mattino durante il passeggio: “Non voglio che tu tema che mi abbiano trovato addosso gli indirizzi”. Mi dice: “Muoio tranquillo… ho fatto il mio dovere. Mi dispiace per tante cose, di non poter essere stato più utile per il partito, mi dispiace per le mie sorelle, poverette! e i miei fratelli… Fatti coraggio e, se riesci a salvarti, ricordami ai compagni …”. Viene Peruch e mi stringe la mano. Vuol parlare ma non gli riesce. Afferro solo una parola: “mia moglie”. Poi il sottocapo carceriere mi chiude bruscamente lo sportello in faccia. Da una fessura vedo Gusso che si veste tranquillamente, con calma. Basso piange sommessamente: da poco gli è nato un bambino che non potrà mai vedere. D’Andrea, Tronco, Momesso scendono fermi le scale, Biancotto canta “Bandiera rossa” sottovoce e il carceriere lo zittisce; poi non vedo più niente. Sento i loro passi che si allontanano...”

Questi i biglietti scritti ai familiari un attimo prima di andare a morire.

BIGLIETTO DI GIOVANNI TRONCO ALLA MOGLIE MARIA

Cara Maria
Ti raccomando di essere forte
Ti domando perdono di tutto (perdonami il male che involontariamente ti ho fatto)
Ti raccomando Rinetta saluta tutti Addio
tuo Giovanni

BIGLIETTO DI ERNESTO D’ANDREA A TUTTI

Saluti e baci
a tutti siate
forti come lo sono
io ciao mamma
Babbo tutti Maria
e Ghidetti

ciao

BIGLIETTO DI AMEDEO PERUCH ALLA MOGLIE

Saluti
Cara Marcella
sono le ultime ore 
Tanti baci Peruch Amedeo
mi saluterai tutti i miei fratelli e cognati

LA RAPPRESAGLIA


28 luglio 1944 verbale di ritiro detenuti

Raccontò il Corriere Veneto:

“Sono le ore 5 del 28 luglio. L’ora del supplizio è giunta. A 7 dei 13 vengono legati i polsi. Le vittime sono assicurate tutte da una fune e trasportate con un motoscafo sulle macerie di Ca’ Giustinian”.

Era Antonio Maddalone il conducente del motoscafo e alla fine della guerra testimonierà al processo contro i responsabili della rappresaglia.

Divisi in due scaglioni – gli altri sei, anch’essi legati, erano stati fatti giungere sul posto a piedi, dalla parte di S. Moisè – furono fatti addossare alle macerie; prima di cadere sotto la rappresaglia fascista, i morituri, seguendo l’esempio del diciottenne Francesco Biancotto, intonarono “Bandiera rossa”. Si unì al coro di quel gruppo di comunisti anche Enzo Gusso, militante del Partito d’Azione.
Quindi caddero sotto le raffiche di mitra.

Maddalone dichiarerà al processo di non aveva assistito personalmente alla fucilazione però, di aver “ben sentito le raffiche di mitra e poi altri sei o sette colpi di rivoltella”.
La rivoltella era quella di Zani che dava il colpo di grazia ai morenti.

Quel giorno la sorella di Venceslao Nardean era andata a Venezia per portargli degli indumenti di lana perché sapeva che sarebbe stato mandato a lavorare in Germania, con altri. Ma non lo trovò a Santa Maria Maggiore e nessuno sapeva niente di lui.
Francesco Bertazzolo morì lasciando un bambino cui non fece in tempo a dare il proprio nome.
Attilio Basso morì sapendo che gli era appena nato il figlio che non avrebbe mai visto.


Verbale di eseguita sentenza

Ancora Gaddi:

“Verso le sei vedo arrivare la guardia addetta al magazzino a ritirare gli oggetti lasciati dai detenuti. Ricorderò quella notte finché avrò vita”.

I fascisti specificamente responsabili di questa crudeltà furono:

  • il capo della provincia Piero Cosmin (Nota: quand’era stato presidente della provincia di Verona nel gennaio 1944 aveva ordinato la fucilazione di Galeazzo Ciano e degli altri condannati al processo di Verona);
  • il colonnello della Gnr Salvatore Morelli,
  • il capitano della Gnr Waifro Zani, nato a Villimpenta (Mn) il 25.8.1894,
  • e i brigatisti neri Ernani Cafiero, nato a Venezia l’8.2.1905, e Umberto Pepi.
Il processo accerterà che fu lo Zani a impedire il trasferimento dei condannati in Germania per destinarli alla rappresaglia. Tutti e tre (Zani, Cafiero e Pepi) sono da ricordare particolarmente per i loro metodi atroci nel torturare i partigiani.

Il plotone di esecuzione (di cui faceva parte Cafiero) fu comandato da Zani, che finì con colpi di rivoltella i tredici condannati. Alcuni testimoni udirono Zani pronunciare la frase: “Non ho mai ammazzato così bene”, o qualcosa di simile.
Il plotone di esecuzione era altresì composto da:

  • Giuseppe Lamacchia, nato a Barletta (Ba) il 3.3.1900, capo della Gnr
  • Arturo Scanziani, nato a Milano il 7.7.1897, maggiore della Gnr
  • Giuseppe Francese, nato a Torre Maggiore (Fg) il 26.5.1893, maggiore della Gnr
  • Pasquale Torregrosso, nato a Termini Imerese (Pa) il 19.10.1900, tenente colonnello della Gnr.
  • Carlo Gavagnin, nato a Sarzana (Sp) il 16.3.1899, maggiore della Gnr.
  • Roberto Mezzetti, nato a Roma il 13.7.1905, maresciallo della Gnr.
  • Paolo Pulvano, nato a Roma il 19.12.1904, maresciallo della Gnr.
  • Armando Romano, nato ad Affile (Roma) il 6.9.1880, brigadiere della Gnr.
  • Ettore Pedron, nato a Padova il 5.4.1919, milite della Gnr.
  • Giuseppe Vittorio Bucella, nato a Murano (Ve) il 18.7.1907, milite della Gnr.

IL SUFFRAGIO A SAN DONÀ

La notizia dell’esecuzione, per rappresaglia, dei Tredici, da parte del plotone della Gnr comandato dal capitano Zani, arrivò a San Donà lo stesso venerdì 28 luglio.
La famiglia di Enzo Gusso apprese la notizia della sua morte in modo brutale: racconteranno i fratelli che “la mamma, ogni mattina, acquistava il giornale e la notizia l’apprese il 28 luglio 1944. Lesse il giornale appena entrata in casa, lanciò un urlo e svenne.
Poi pianse disperata, tanto che il suo cuore rimase sofferente. Il babbo apprese la notizia mentre si trovava in treno, in viaggio verso Padova per andare a trovare il figlio Giuliano, in carcere in quella città. La (sorella) Dina fu avvisata per telefono nel luogo di lavoro. Il nostro dolore non dovevamo farlo capire e cercare di calmare il papà che rientrato, disperato gridava ‘Assassini!’ (questa parola poi l’ha scritta su tutti i manifesti esposti a Venezia). Solo qualche amico di famiglia si recò a casa Gusso, perché tutti avevano paura.

Anche la famiglia di Angelo Gressani, a Ceggia, seppe dal “Gazzettino” la notizia della morte del loro congiunto.

E così pure l’apprese dal giornale la famiglia di Venceslao Nardean. La persona che ne soffrì di più fu la madre, ma anche gli altri familiari erano pieni di disperazione e di rabbia.

I corpi dei Tredici erano stati lasciati sul posto; solo il giorno successivo, il 29 luglio, compleanno del Duce, la “guardia” ordinò la rimozione delle salme che verso le 9 furono trasportate su di una peota al cimitero, senza alcun rito religioso né onoranze funebri. “I loro corpi erano in una barca in attesa di sepoltura. Erano coperti con un telo. Volevano gettarli in una fossa, ma il Patriarca [Monsignor Piazza] ha detto che avevano diritto ognuno ad una sepoltura” (testimonianza della sorella di Venceslao Nardean).

Il parroco di San Donà mons. Saretta, con la prudenza che era opportuno usare in una città invasa, domenica 30 luglio in chiesa proferì queste brevi parole:

“Quest’oggi vi parlo col cuore trafitto dal più profondo dolore. Mio Dio! Abbi pietà dei tuoi figli. Tu che sei giusto, conforta, solleva le nostre povere anime, che sono affrante sotto il peso della sciagura che ci ha colpito. Preghiamo per i nostri morti, preghiamo per le povere madri, per le spose che sono in lutto. Preghiamo per la nostra Patria così duramente provata. Preghiamo e piangiamo”.

Per i Tredici martiri uccisi a Venezia Saretta celebrò alcune messe di suffragio: il 31 luglio, l’1, il 4, l’8 agosto (“Pro defunti trucidati”), e una solenne messa funebre fu celebrata il 30 agosto di quel 1944.

Beppina Nardean, la sorella di Venceslao, in seguito avrebbe raccontato di quei giorni: “La mamma era incapace di reagire, in poco tempo i suoi capelli diventarono completamente bianchi; se non era per le sorelle e la figlia che si diedero da fare, gli altri figli, che erano parecchi, non avrebbero avuto di che mangiare, il papà infatti era fuori per lavoro”

A Francesco Biancotto, il più giovane dei tredici martiri, ricordato come un “coraggioso come pochi” fu intitolata la Brigata Garibaldi operante in città e, dopo la guerra, il convitto per gli orfani dei partigiani e dei caduti per la libertà.

Sepoltura dei 13 martiri

Alla fine del conflitto una delle prime cure di San Donà fu di riportare le salme dei tredici Martiri alla terra per la quale si erano immolati. Tutto il popolo si riversò sulle vie e sulle piazze per l’estremo saluto.


Sopra, la camera ardente, nella sala Consiliare in municipio.

Sotto, tre immagini della giornata del funerale






Sotto, la cerimonia in cimitero.

Alla fine della cerimonia le salme dei Tredici Martiri furono portare nel cimitero di San Donà e sepolte in una tomba comune con la fotografia di ognuno.
Nella stessa tomba, al centro del cimitero di San Donà ci sono anche altri partigiani sandonatesi protagonisti della liberazione delle nostre terre.


La lapide della tomba dei 13 martiri

Regolamento di conti e processi a fine conflitto

All’inizio i partigiani avevano pensato che fosse stato il direttore della Banca a denunciare i 13 martiri. E l’avevano pedinato per un pezzo. Poi scoprirono che era stato un tal Boccato. E chiamarono il Tell, un partigiano deciso che operava dalle parti di Negrisia, di Oderzo, uno che aveva la mira precisa, perché procedesse al regolamento di conti.
Vestito da vecchia, il Tell giunse a San Donà. Pedalava in bicicletta, come una vecchia macilenta. L’obiettivo, Boccato, dalla rotonda (attuale) di fronte a Villa De Faveri, si avviò verso il centro.
Due partigiani sandonatesi seguivano i movimenti di Boccato; la nonnina arrivò in bicicletta, Boccato svoltò per via Marconi, i due sandonatesi indicarono alla nonnina dove stava il Boccato, la nonnina svoltò per via Marconi. Scese dalla bici, alzò la gonna e diede una sventagliata di mitra, il Boccato cadde a terra, la nonnina risalì sulla bicicletta e ripartì, macilenta, in direzione della stazione.

Finita la guerra alcuni partigiani veronesi andarono ad arrestare, presso la Clinica La Quiete, presso Varese, Pietro Cosmin, ma intervenne il fisiologo e radiologo Emilio Pisoni, che lo salvò per le sue compromesse condizioni di salute (morirà infatti il 5 maggio).

Gli altri responsabili della strage di Ca’ Giustinian (i principali erano Waifro Zani ed Ernani Cafiero) finirono sotto processo. Ai primi di giugno del 1945 si tenne il processo a loro carico.
Il giudice della corte straordinaria d’Assise di Venezia era il dottor Orazio Scacciati. Lo Zani e il Cafiero furono accusati di aver favorito i disegni politici del “nemico invasore”, mantenendo contatti e rapporti con la gendarmeria e le SS tedesche di Venezia. Il secondo – e più grave – atto di cui erano accusati era l’uccisione dei 13 partigiani.
In particolare:

  • - Waifro Zani per avere, in concorso con altri, cagionato la morte di Francesco Biancotto, Attilio Basso, Ernesto D’Andrea, Giovanni Felisati, Angelo Gressani, Enzo Gusso, Gustavo Levorin, Violante Momesso, Venceslao Nardean, Amedeo Peruch, Giovanni Tamai, Giovanni Tronco e Stefano Bertazzolo. La mattina del 28 luglio 1944 in Venezia, con premeditazione.
  • - Ernani Cafiero per avere in concorso con altri cagionato la morte di tredici persone di cui all’imputazione lettera b) dello Zani. La mattina del 28 luglio 1944 in Venezia con premeditazione.
  • - Salvatore Morelli, Giuseppe Lamacchia, Arturo Scanziani, Giuseppe Francese, Pasquale Torregrosso, Carlo Gavagnin, Roberto Mezzetti, Paolo Pulvano, Armando Romano, Ettore Pedron, Giuseppe Vittorio Bucella imputati di concorso in 13 omicidi aggravati per avere concorso della fucilazione di Biancotto Francesco, Basso Attilio, D’Andrea Ernesto, Felisati Giovanni, Gressani Angelo, Gusso Enzo, Levorin Gustavo, Momesso Violante, Nardean Venceslao, Peruch Amedeo, Tamai Giovanni, Tronco Giovanni e Bertazzolo Stefano, la mattina del 28 luglio 1944 in Venezia commettendo il fatto con premeditazione e allo scopo di eseguire il delitto di collaborazione. Il Torregrosso, il Gavagnin, lo Scanziani, il Francese, il Lamacchia ed il Morelli, fecero parte del Tribunale Straordinario che condannò a morte i 13 innocenti; mentre il Mezzetti, il Pulvano, il Romano, ed il Bucella nonché il Pedron fecero parte del plotone di esecuzione, che agì dietro il comando del Morelli.

Con sentenza del 4 giugno 1945 la Corte d’Assise Straordinaria di Venezia condannò Waifro Zani e Ernani Cafiero, alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena per entrambi gli imputati.
Il giorno dopo il giornalista del “Corriere Veneto” raccontò le testimonianze, l’interrogatorio degli imputati e la reazione della folla in tribunale. Un testimone, Maddalone Antonio, aveva dichiarato di aver trasportato col motoscafo le vittime di Ca’ Giustinian e di aver visto i due imputati assieme agli altri componenti del plotone di esecuzione. Il testimone non aveva assistito personalmente alla fucilazione però, riportò il giornale, “ha ben sentito le raffiche di mitra e poi altri sei o sette colpi di rivoltella”.
Il più importante dei testimoni era Giuseppe Gaddi, che aveva conosciuto i 13 in carcere. Gaddi specificò che “i 13 assassinati erano già stati ingaggiati dai tedeschi per essere trasferiti a lavorare in Germania: ciascuno era già in possesso del certificato che li impiegava in una fabbrica della Slesia. Fu lo Zani ad opporsi al loro trasferimento”. Il giornalista riferì che a quel punto la folla ebbe uno scatto e imprecò contro gli imputati.

Condanne a morte e indulti vari

La condanna a morte di Zani e Cafiero venne eseguita alle ore 4.53 del 12 luglio 1945 nei pressi di un forte militare situato in località S. Nicolò al Lido di Venezia.
Con sentenza del 17 aprile 1947 la Corte d’Assise Straordinaria di Venezia condannò Salvatore Morelli alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena; Giuseppe Lamacchia, Arturo Scanziani, Pasquale Torregrosso, Roberto Mezzetti, Paolo Pulvano, Armando Romano, Ettore Pedron e Giuseppe Bucella alla pena dell’ergastolo, commutata in anni 30 in applicazione dell’amnistia. Assolse Giuseppe Francese e Carlo Gavagnin per non aver commesso il fatto loro addebitato.
Con sentenza del 16 giugno 1948 la Cassazione annullò senza rinvio la sentenza nei confronti di Giuseppe Lamacchia, Arturo Scanziani e Pasquale Torregrosso, per amnistia. Annullò la sentenza nei confronti di Ettore Pedron, Roberto Mezzetti, Paolo Pulvano, Armando Romano e Giuseppe Bucella e li rinviò alla Corte d’Assise di Verona. Rigettò il ricorso di Salvatore Morelli dichiarando commutata la pena di morte in quella dell’ergastolo.
Con atto 26 gennaio 1950 ricorse in Cassazione avverso questa sentenza Romano Armando. Con sentenza del 19 giugno 1950 la Cassazione annullò la sentenza del 17 aprile 1947 della Sezione Speciale della Corte d’Assise di Venezia e quella del 9 marzo 1949 della Corte d’Assise di Verona e rinviò alla Corte d’Assise di Bologna.
Con ordinanza dell’8 febbraio 1951 della Corte d’Appello di Venezia, venne commutata la pena dell’ergastolo in quella di anni 30 di reclusione (ostava lo stato di latitanza per l’applicazione degli altri indulti).
Con sentenza del 4 maggio 1951 la Cassazione annullò senza rinvio nei confronti di Paolo Pulvano la sentenza 8 marzo 1949 della Corte d’Assise di Verona dichiarando estinto per amnistia il reato di collaborazione.
Con sentenza del 5 giugno 1952 la Cassazione annullò per mancanza costituzione del rapporto processuale la sentenza nei confronti di Giuseppe Bucella e rinviò la causa per nuovo esame alla Corte d’Appello di Brescia.
Con ordinanza del 21 maggio 1954 la Corte d’Appello di Brescia dichiarò ridotta per indulto ad anni 2 la pena inflitta al Giuseppe Bucella.
Con sentenza del 6 novembre 1959 la Corte d’Appello di Venezia visto il Dpr 11.7.1959 n. 460 dichiarò estinti i reati per amnistia a carico di Salvatore Morelli. Tribunale competente: Corte d’Assise Straordinaria di Venezia e Procura Militare di Padova

MEMORIA DEI TREDICI MARTIRI

Monumenti/Cippi/Lapidi
A Venezia sul luogo dell’eccidio è stata collocata una targa commemorativa marmorea (data di collocazione sconosciuta).

Dal 2004 a Ceggia (Ve) nella ristrutturata piazza municipale 13 cippi commemorativi ricordano i 13 martiri.

Musei e/o luoghi della memoria

  • Ai 13 Martiri è stata intitolata una delle vie principali di San Donà di Piave, e a ognuno dei 13 una via (vedi sotto);
  • a Venezia la vecchia Calle Campaldin è stata rinominata Calle dei Tredici Martiri,
  • la piazza municipale del Comune di Ceggia è stata dedicata ai Tredici Martiri;
  • a Gustavo Levorin è stata intitolata una via a Padova e un circolo del Partito Democratico a Venezia.

Onorificenze
Alla Città di San Donà di Piave è stata assegnata la Medaglia d’Argento al valor militare.

Commemorazioni
A Venezia a fine luglio viene organizzata una breve cerimonia di ricordo davanti alla targa commemorativa;
a San Donà di Piave ogni 28 luglio viene organizzata una pubblica manifestazione che si conclude generalmente nel locale cimitero davanti alla tomba delle vittime sandonatesi.

Note sulla memoria
La memoria dell’eccidio si può considerare generalmente condivisa unanimemente da forze politiche e popolazione, soprattutto nella città di San Donà di Piave.

LA TOPONOMASTICA SANDONATESE IN ONORE DEI 13 MARTIRI

Caduto il Fascismo si procedette dopo la guerra alla ridenominazione di Piazze e strade.
La via principale della città cambiò nome e divenne via 13 martiri.
Arrivati a Mussetta ed entrati nella frazione, la prima strada sulla destra (in realtà andando dritti alla curva della chiesa) è via Venceslao Nardean.
La prima via sulla destra dopo la rotonda di Noventa è via Attilio Basso.
Se si prosegue fino al confine con Noventa e si prende via Gondulmera, la prima strada a sinistra appena passati sopra il canale è via Violante Momesso.
La prima laterale sinistra di via Carrozzani a San Donà è via Primo Biancotto, fratello maggiore di Francesco. A Francesco, cui in unprimo tempo fu intitolata una Brigata partigiana e il refettorio degli orfani, di fatto non ha oggi nessuna via intitolata.
La prima via sulla sinistra che si incontra lungo viale Primavera che poi diventa via Tabina appena passati sotto la bretella che mena al ponte nuovo dei Granatieri è via Giovanni Tronco. Essa costeggia la bretella e prima della curva che la mena sotto la bretella per collegarsi a via Trezza è collegata a destra con via Giovanni Felisati.
Imboccato l’argine di San Donà verso il mare e scesi a sinistra lungo via Bassa Isiata, la prima a destra è via Giovanni Tamai. Proseguendo via Bassa Isiata fino a via Trezza, girato a destra su via Trezza, la prima a sinistra (che oggi passa sotto la bretella) è via Enzo Gusso. Risaliti sull’argine di San Donà per poi scendere a Palazzetto lungo la via principale della frazione (via Madonna della Pace), la prima strada a sinistra parallela all’argine è via Stefano Bertazzolo.
Se da via Calnova si prosegue dritti per via della Fornace (invece di fare il curvone), la via sulla destra prima del canale Grassaga è via Gustavo Levorin. Se invece si prosegue dritti, su via Fossà, la via che si dirama verso destra dalla curva di via Fossà è via Angelo Gressani. Ad Angelo Gressani è dedicata anche una via a Ceggia.
Oltre il ponte, sull’argine di Musile verso il mare, sceso l’argine per andare a Chiesanuova, la prima via a sinistra è via Ernesto D’Andrea.
Se invece si arriva a Chiesanuova e, passato il centro, si gira a sinistra per via Calle dell’Orso, che sbuca sulla trafficatissima, via Armellina, attraversandola si è via Amedeo Peruch.

La commemorazione in occasione del ventennale

Nel 1964, in occasione del ventennale dell'eccidio, l'Amministrazione Comunale curò la pubblicazione di un opuscolo per commemorare i 13 martiri.

Questa era l’introduzione del sindaco, dott. Franco Pilla

A nome della Civica Amministrazione presento queste modeste pagine che si propongono di ricordare i 13 Martiri nel ventennale del Loro sacrificio a tutti coloro che vissero il Secondo Risorgimento e di FarLa conoscere ai giovani, a quelli che sono venuti quando l’alba della Libertà era già risorta sulla nostra Città e sulla Patria.
Il 28 luglio 1944 a Cà Giustinian vennero fucilati per nessun delitto, per nessun tradimento, ma solo per aver scelto la libertà e l’onore: Attilio BASSO, Stefano BERTAZZOLO, Francesco BIANCOTTO, Ernesto D’ANDREA, Giovanni FELISATI, Angelo GRESSANI, Enzo GUSSO, Gustavo LEVORIN, Violante MOMESSO, Venceslao NARDEAN, Amedeo PERUCH, Giovanni TAMAI e Giovanni TRONCO.
Non tutti erano sandonatesi; Gressani di Ceggia, Felisati di Mestre e Levorin di Padova. Ma da allora e per sempre nostri Concittadini, perché accomunati dallo stesso sacrificio.
L’Amministrazione Civica nel 20° anniversario dell’eccidio, che, nelle immani proporzioni, ha toccato il vertice della tragedia vissuta dalla Patria in una delle ore più oscure della Sua storia, ha dedicato la giornata del 6 settembre per onorare, con i 13 Martiri, tutti i Caduti della Resistenza e per celebrare i grandi valori ideali che la Resistenza rappresentò, nella lotta contro la dittatura per la conquista della Libertà.
Non sarebbe patrimonio vero, consapevole, operante, la libertà in Italia se non fosse stata conquistata dal coraggio, dalla fede, dall’eroismo del sacrificio dei suoi figli migliori; da coloro che dimostrarono di credere nella Libertà e nella Democrazia, con il sangue, che ci insegnarono un modo nuovo di fedeltà agli ideali.
Così intendiamo ricordare i 13 Martiri e con Loro tutta la Resistenza Sandonatese.
Sì, anche gli altri: Attilio RIZZO, animatore e capo, Medaglia d’Argento al Valor Militare, Giovanni BARON, suo collaboratore, Medaglia di Bronzo al Valor Militare, Primo BIANCOTTO, Carlo VIZZOTTO, Verino ZANUTTO, Luigi GUERRATO, Luigi CAROZZANI, Bruno BALLIANA, Giodo BORTOLAZZI, Flavio STEFANI, Casimiro ZANIN; Antonio FERRO, Erminio ZANE, Esterino DALLA FRANCESCA, Cesira ed Elvira CAROZZANI, la Brigata Eraclea, la Brigata Piave, Reparti dell’Esercito della Libertà, nati ed organizzati nella nostra amatissima terra del Basso Piave, dove mai il fascismo era riuscito a piantare radici profonde.
Per quanto, mentre ancor oggi ci raccogliamo accomunati in un sentimento di immensa pietà e profonda commozione attorno a queste 13 salme sacrificate dall’odio e dalla violenza, eleviamo insieme la nostra protesta di popolo civile contro la tirannide e la dittatura.
Per questo ancora, sentiamo il diritto di pronunciare l’implacabile condanna, poiché conosciamo attraverso il sacrificio dei nostri Martiri quale sia il prezzo che un popolo deve pagare per la conquista della Libertà.
Le celebrazioni del 6 settembre costituiscono per tutti un profondo e grave ammonimento ad essere degni di questo bene inestimabile.

Il Sindaco
Dott. Franco Pilla
San Donà di Piave, 6 settembre 1964

BIBLIOGRAFIA

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  • Marco Borghi e Alessandro Reberschegg: Fascisti alla sbarra. L’attività della Corte d’Assise straordinaria di Venezia, 1945-1947, Iveser - Comune di Venezia, Venezia, 1999, pp. 109-111, 216, 301-3016.
  • Marco Borghi (a cura di), La sentenza è già stata eseguita, “Notizie dall’Istituto”, I, n. 2 (aprile 2003), dove è riprodotta il testo della sentenza del Tribunale Straordinario di guerra.
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  • Giuseppe Gaddi, Li assassinarono all’alba. 28 Luglio ‘44, in G. Turcato e A. Zanon Dal Bo (a cura di), 194345 Venezia nella Resistenza. Ricordi e testimonianze, Comune di Venezia, Venezia 1976, pp. 225-234.
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  • Scuola media statale “G. Marconi” di Ceggia, La storia dei tredici martiri, ricerca sotto la guida della professoressa Federica Gusso, nipote di uno dei martiri
  • Scuola media statale “Francesco Morosini”, Memorie della Resistenza veneziana. Fatti, personaggi, luoghi, Comune di Venezia, Venezia 1995, scheda n. 23.

Fonti archivistiche

  • Archivio Iveser, Fondo Anpi, b. 1, Guardia Nazionale Repubblicana - Comando Provinciale, Verbale di eseguita sentenza, 28 luglio 1944.
  • Archivio Iveser, Fondo Giustizia Straordinaria Venezia (1945-1947), Sentenze della Corte d’Assise Straordinaria di Venezia (in copia). AUSSME, N 1/11, b. 2131.
  • Procura militare di Padova, fasc. 262/96.
  • Documenti di fonte fascista conservati in vari fondi dell’Archivio Centrale dello Stato (citati in numerosi saggi segnalati in bibliografia).

Sitografia e multimedia

  • http://resistenzaveneziana.blogspot.it/2012/11/i-tredici-martiri-di-ca-giustinian.html. Profilo biografico di Amedeo Peruch in http://www.anpi.it/donne-e-uomini/amedeo-peruch/
  • Profilo biografico di Gustavo Levorin in http://www.anpi.it/donne-e-uomini/gustavo-levorin/
  • Le schede biografiche – curate da Igor Pizzirusso – di Attilio Basso, Ernesto D’Andrea, Violante Momesso, Venceslao Nardean, Amedeo Peruch, Giovanni Tronco e le riproduzioni delle loro ultime lettere sono pubblicate in Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana. (http://www.ultimelettere.it), INSMLI, visitata 13 febbraio 2015. La Resistenza a Venezia ieri e oggi, film-documentario (DVD), Comune di Venezia 2009.