STORIA di SAN DONÀ
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PREFETTURA DI VENEZIAPer disposizione del Ministero dell’Interno e fino a nuovo ordine, qualunque ciclista o Pedone sorpreso a circolare nel territorio della Provincia in possesso di armi da fuoco, senza regolare autorizzazione delle Autorità competenti, sarà immediatamente passato per le armi sul posto. Venezia, 30 Gennaio 1944 XXII IL CAPO DELLA PROVINCIA
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Dovunque era la fame. I poveracci si arrangiavano come potevano e i furti, che nonostante i proclami del Regime non erano mai diminuiti, continuavano, se possibile, più numerosi; in barba ai proclami di fucilazione immediata.
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Un senso quasi wagneriano di tragedia e morte investiva l’Italia tutta. Di chi era la colpa? Dei traditori, dei disfattiti, dei terroristi, del re. Una direttiva del COMANDO DELLA SEZIONE DELLA GUARDIA R. DI FINANZA DI SAN DONà imponeva di togliere gli stemmi dell'ex Casa regnante dai vari esercizi commerciali.
Il venerdì santo, 7 aprile, gli aerei alleati bombardarono Treviso. Il giorno dopo, sabato santo, in molti da San Donà vollero andare a vedere gli effetti dei bombardamenti: videro macerie fumanti, cadaveri e sangue; la distruzione e la morte erano divenute spettacolo.
Gli Alleati, risalita tutta la penisola, bombardavano quotidianamente i ponti e le ferrovie del nord. Per ragioni di prudenza le autorità di Salò ordinarono di spostare tutte le sede istituzionali che si trovassero vicine a obbiettivi militari in luoghi più sicuri. Il municipio di Musile, che distava meno di 500 metri dal ponte della Vittoria sul Piave, il 10 giugno [delibera n.° 22] fu trasferito in Castaldia nell’edificio delle scuole.
Dopo avere tentato invano a fine giugno di effettuare dei lanci di armi e materiale a Zenson, finalmente l’8 luglio gli aerei alleati riuscivano a far piovere a Grisolera un carico di armi e munizioni per i partigiani. Si trattava di 43 imballaggi che furono raccolti e nascosti dai partigiani e, data la stretta sorveglianza e i rastrellamenti e le perquisizioni da parte delle brigate nere e della X MAS, dovettero essere più volte spostati di nascondiglio.
Lo stesso giorno il nuovo colonnello comandante del presidio l’Ortskommandantur di San Donà inviava al Commissario prefettizio di San Donà Gardini un ordine col quale gli annunciava che aveva preso il Comando di Piazza dei Comuni di San Donà, Musile e Noventa e di aver posto il suo ufficio al secondo piano del Municipio di San Donà.
Nel luglio 1944 iniziarono i primi bombardamenti su San Donà.
Si teme la distruzione dell'acquedotto. (MdB busta 453 anno 44/45 “Varie della classe 4” 10.4.15)
COMUNE DI SAN DONA’ DI PIAVE
Il Commissario Prefettizio
allo scopo di prevenire le gravi conseguenze che deriverebbero immediatamente a tutti gli utenti del civico acquedotto dall'eventuale distruzione del Ponte stradale sul Piave alla cui base è aggrappata la conduttura principale dell'acquedotto
Esorta
tutte le famiglie che fruiscono della suddetta erogazione d'acqua potabile a valle prudentemente costituirsene una scorta sufficiente per bastare ai normali bisogni familiari per i primi 4-5 giorni riempiendo a tale effetto i recipienti che ritengono più adatti, quali damigiane, botti che dovranno essere accuratamente otturati
Fa obbligo
inoltre a tutti i proprietari di pozzi di voler procedere entro il corrente mese ad una radicale pulizia del pozzo della propria casa e alla disinfezione di esso servendosi del personale e del materiale che l’Ufficio Sanitario Comunale porrà a loro disposizione.
24 luglio 1944Il Comm. Pref.
Giovanni Gardini
Ca’ Giustinian era la sede dei comandi tedeschi e fascisti e dell’U.P.I., (Ufficio Politico Investigativo):
lì si decidevano e si ordinavano i rastrellamenti contro i patrioti, si preparavano le azioni più terribili
(stragi, eccidi...), lì arrivavano le spie e gli informatori della città e della provincia,
lì si torturavano gli arrestati politici e i sospettati di antifascismo. Il 26 luglio alle 9 e 5 del mattino
una violenta esplosione fece crollare i cinque piani della parte posteriore del palazzo,
provocando numerose vittime. Erano stati i partigiani a mettere la bomba in un baule destinato
al comando tedesco per la propaganda cinematografica, all’ultimo piano. Scattò la rappresaglia.
Alle 22,30 del 27 luglio dal comando della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana) giunse
al carcere di S. Maria Maggiore l’ordine di inviare a S. Zaccaria le tredici vittime
designate. Si tratta di partigiani della zona di San Donà. Tra di loro
vi era Ernestino D’Andrea, residente a Croce, ma alla macchia da qualche tempo. Ai tredici fu
detto che sarebbero stati portati al tribunale; arrivati a San Zaccaria i tredici ebbero
la conferma dei loro sospetti: ad attenderli non c’erano né tribunali, né giudici.
Ernestino riuscì a scrivere un biglietto ai suoi cari nel quale diceva: “Saluti a tutti. Siate forti come lo sono io”.
Raccontò il Corriere Veneto: “Sono le ore 5 del 28 luglio. L’ora del supplizio è giunta. A 7 dei 13
vengono legati i polsi. Le vittime sono assicurate tutte da una fune e trasportate con un motoscafo
sulle macerie di Ca’ Giustinian”. Divisi in due scaglioni – gli altri sei, anch’essi legati,
erano stati fatti giungere sul posto a piedi, dalla parte di S. Moisè – furono immediatamente
uccisi a raffiche di mitra. I loro corpi furono lasciati sul posto fino al giorno successivo
quando la “guardia” ordinò la rimozione delle salme che furono trasportate su di una peota
al cimitero, senza alcun rito religioso né onoranze funebri. “I loro corpi erano in una barca
in attesa di sepoltura. Erano coperti con un telo. Volevano gettarli in una fossa, ma
il Patriarca [Monsignor Piazza] ha detto che avevano diritto ognuno ad una sepoltura”
[testimonianza della sorella di Venceslao Nardean, uno dei 13].
Perché proprio il gruppo dei 13 di San Donà fu scelto per la rappresaglia? U. Dinelli
nel suo libro “Rosso sulla laguna” spiega che la scelta ricadde su elementi della
provincia meno noti, e quindi meno importanti perché i fascisti temevano di scatenare
le pesanti ritorsioni delle forze partigiane. La notizia comparve sul Gazzettino del
giorno dopo. Scrive sempre Dinelli: “L’emozione per la rappresaglia è grandissima in città
e a San Donà di Piave, non pochi dei colpi partigiani che si operarono in seguito avranno
proprio lo scopo di vendicare le vittime di questo eccidio…”
Il 30 luglio, nel duomo di San Donà, così predicò monsignor Saretta: “Quest’oggi vi parlo col
cuore trafitto dal più profondo dolore. Mio Dio! Abbi pietà dei tuoi figli. Tu che sei giusto conforta,
solleva le nostre povere anime, che sono affrante sotto il peso della sciagura che ci ha colpito.
Preghiamo per i nostri morti, preghiamo per le povere madri, per le spose che sono in lutto.
Preghiamo per la nostra Patria così duramente provata. Preghiamo e piangiamo”. Non fece riferimenti
espliciti ai tredici martiri.
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per leggere il testo teatrale
I tredici martiri di Ca' Giustinian
di Carlo Dariol.
La guerra, creduta finita un anno prima, era più presente che mai; e tanto più si avvicinava la liberazione da tedeschi e fascisti, che solo gli Alleati potevano portare, tanto più aumentavano i disagi. Molti avevano deciso di abbandonare la città e molti lo fecero.
Il 5 agosto 1944 un gruppo di partigiani effettuò un’azione di disarmo di un piccolo gruppo di militi della “San Marco” a Musile di Piave; dopo uno scontro a fuoco con reparti della Gnr e delle SS sulla Triestina vennero catturati Matteo Corridore, Pino Rossi, Agostino Visentin. Augusto Visentin era nato a Musile di Piave (Ve) il 27 maggio 1921, e aveva collaborato attivamente con la missione militare “Argo”, nell'occasione fu anche ferito; il compagno Matteo Corridore, di 24 anni, era di San Giovanni rotondo (Foggia); con loro fu arrestato anche Pino Rossi. Il 7 agosto 1944 Corridore e Visentin furono interrogati, seviziati e, il 9 agosto 1944, fucilati a San Donà di Piave nei pressi del Municipio. Pino Rossi riuscì invece a salvarsi dal plotone di esecuzione.
Un colpo ancor peggiore la resistenza sandonatese lo ricevette il 14 agosto, quando fu arrestato a San Donà il geometra Attilio Rizzo, al qual faceva capo la missione “Argo”. Interrogato il 18, fu spedito a Mauthausen.
(MdB, busta 453 anno 44/45 “Traghetti sul Piave” 10.2.2) 26 settembre 1944
Bonetto Amedeo fu Luigi - Molini Emilio - Boretto Anna - Ronchi Vianello traghettanti sul Piave
Allo scopo di disciplinare con l'imposizione di prezzi equi il servizio dei vari traghetti sul Piave evitando illecite speculazioni sul disagio e le disgrazie del prossimo, dispongo che da oggi stesso sia applicata da tutti i barcaroli, per l'attraversamento di persone e di veicoli da una sponda all'altra del fiume Piave la seguente tariffa:
1 per una persona L .1
2 per una persona con bicicletta L. 2
3 per un carro L. 20
4 per un automobile L. 25
Agli operai ed impiegati che per ragioni di lavoro devono servirsi quattro volte al giorno del traghetto dovranno essere applicate nella tariffa di cui ai numeri 1 e 2 le seguenti riduzioni;
per quattro traghetti per persona al giorno L.3 (e non 4)
per quattro traghetti per persona con bicicletta L. 6 ( e non 8)
Agli impiegati municipali Moretto Ambrogio, Finotto Vittoria e Stillone Lia che devono servirsi per motivo di servizio del traghetto 4 volte al giorno dovrà essere accordato il passaggio anche con bicicletta a titolo gratuito.
Ai contravventori sarà provveduta immediatamente la requisizione del natante e del barcariolo e il servizio sarà gestito direttamente dal ComuneIl Comm. Prefettizio
Cesare Mancini
Qua e là si installavano nuclei del Comando germanico “Regger”.
Poiché i tedeschi vigilavano dappertutto, gli aerei alleati non riuscivano a far giungere a Zenson le armi per i partigiani, che perciò risolsero di trasportare lì quelle che erano riusciti a recuperare a Grisolera. Una sera di settembre un camion con il rimorchio partì da Zenson verso le dieci di sera. Giunto al passaggio a livello di Croce, gli autisti incontrarono dei Tedeschi che chiedevano un passaggio. Glielo diedero, ma non fino alla stazione di San Donà, come chiedevano loro, bensì solo fino al ponte. Il loro viaggio proseguì sulla destra del fiume, che avrebbero attraversato a Grisolera, essendo stato l’argine sinistro bombardato. A Grisolera caricarono le armi sul camion e sul rimorchio fino a metà, poi le ricoprirono di patate buttate alla rinfusa fino a riempirli; bevvero due bicchieri di vino, accettarono un’anguria in regalo e presero la via del ritorno; convinti di essere tranquilli, dovettero invece di nuovo provar paura al passaggio a livello a Croce: un capitano tedesco con numerosi soldati e con molti bagagli erano in attesa di qualche mezzo per farsi trasportare alla stazione ferroviaria di San Donà. Fossero state caricate le patate in sacchi, i tedeschi le avrebbero sicuramente scaricate, ma vedendole sparpagliate per il camion e per il rimorchio rinunciarono. «Noi dobbiamo andare perché le cartofen servono per arbait TODT» disse uno degli autisti. Non sapeva che due parole di tedesco. Regalò l’anguria al capitano, che rise e li lasciò andare dicendo a sua volta una frase piena di arbait.
Il 23 settembre 1944 in diverse ondate successive gli aerei alleati sganciarono su San Donà circa 200 bombe. Sia il ponte stradale che quello ferroviario vennero colpiti e si registrarono numerose vittime, ben cinque di una sola famiglia poi salite a sei.
Del ponte ferroviario venne distrutta la prima campata, mentre di quello stradale ad essere colpita fu l’ultimo tratto verso Musile.
Danni riportarono la conduttura elettrica e quella dell’acquedotto e le stesse linee telefoniche vennero danneggiate. Danni importanti anche alle strade arginali, colpite anche Isiata e Mussetta di Sotto. Il giorno seguente avrebbe dovuto essere come da tradizione dedicato alla Madonna del Colera con le cresime officiate dal Vescovo, ma il tutto venne rinviato proprio per il pericolo incombente dei bombardamenti.
I caduti del 23 settembre 1944
In una casa di via Code distrutta dalle bombe morirono cinque componenti della famiglia Ongaretto:
il padre Luigi (35 anni), la moglie Vallese Germana (29 anni), la suocera Orlando Caterina (52 anni)
e le figlie Giselda e Vittorina (4 anni) (quest’ultima morì in ospedale);
in ospedale furono ricoverati i figli Diego (7 anni) e Angelo (10 anni);
alcuni giorni dopo anche Angelo morì, portando a sei componenti il tributo di sangue della famiglia Ongaretto.
Gli altri caduti furono il marinaio Cigar Carlo (25 anni, di stanza alla Caserma San Marco di San Donà),
il commerciante Luigi Marigonda (51 anni), il tipografo Davide Armellin (28 anni)
e l’operaia dello jutificio Brussolo Orietta (30 anni).
Qualche giorno dopo tra i feriti morirà anche Caterina Zanchetta (56 anni),
per cui le vittime del bombardamento diventarono undici.
I bombardamenti divennero continui nei giorni successivi e nessuno aveva voglia di pensare
alla Fiera d’Ottobre.
Il 4 ottobre 1944 fu nuovamente colpito il ponte della ferrovia.
Anche gli argini vennero duramente danneggiati e compromessi i lavori di ripristino iniziati dopo il precedente bombardamento. Finì sotto il fuoco alleato anche un barcone di ghiaia transitante lungo il Piave, e miracolosamente rimasero solo feriti i due componenti l’equipaggio, padre e figlio.
Il 10 ottobre la città fu nuovamente sottoposta ai bombardamenti: durante le incursioni aeree furono danneggiati il Palazzo Municipale, la Pretura, il carcere mandamentale, e un centinaio di edifici privati, mentre furono completamente rasi al suolo il Teatro Verdi e l'Ospedale Umberto I. In quella grigia giornata di ottobre non fu bombardata solo San Donà di Piave ma anche Porto Marghera e Treviso. Oltre cento bombardieri mossero in direzione del Veneto, molti furono quelli che puntarono verso la città lungo il Piave i cui ponti erano stati colpiti ripetutamente nelle settimane precedenti. Sembrava una giornata di ordinario bombardamento, invece questa volta non furono i ponti il vero obiettivo della missione. I primi bombardieri che si calarono tra le basse nuvole sganciarono le loro bombe sul centro cittadino. Seguì una lunga scia di fuoco che cinse le vie del centro concentrandosi particolarmente sull’ospedale civile e gli edifici in Viale Margherita (attuale Viale Libertà). Ancora una volta l’ospedale sandonatese pagò un caro prezzo come già era successo durante la prima guerra mondiale. Da poco non si fregiava più del nome di “Umberto I”, dato che nella RSI si era tentato di rimuovere ogni riferimento a Casa Savoia.
L’ospedale divenne un grande cumulo di macerie: sia l’artistica struttura verso viale Margherita
che i padiglioni a un solo piano posti dietro furono duramente colpiti.
Delle 85 persone presenti all’interno dell’ospedale tra pazienti e personale, furono 24 i morti e 45 i feriti.
L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944
Sul libro dedicato al centenario dell’ospedale “L’ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000”
vengono riportate due testimonianze di quel giorno.
Il segretario-economo Filiputti:
«[…] appena ho sentito il rumore degli aerei che si avvicinavano ho detto a Bepi Da Villa che andasse ad avvertire suor Carla e poi, appena il pericolo è diventato incombente, ho visto tanta gente che correva verso il campanile e la chiesa, e alle spalle sentivo già il fruscio delle bombe che arrivavano e colpivano l’Ospedale. Tra le vittime ricordo la figlia di Centioli, che frequentava l’Ospedale come volontaria e tra le suore, suor Ildefonda Lupi e suor Angiolina Giusto. Ricordo che al momento di rifugiarmi nel campanile ho incontrato il dottor Bruno Nardini. Ma alla tragedia si è cercato subito di rispondere con provvedimenti per gli ammalati e i feriti. Particolarmente incisiva è stata l’azione del Comm. Giovanni Ronchi che ha fatto portare quanto possibile, ricordo in particolare anche della paglia, per predisporre dei giacigli nella caserma come primo improvvisato ricovero per i feriti e gli ammalati che non era possibile trasportare, con mezzi militari, agli ospedali di Oderzo o di Motta di Livenza...»
La seconda testimonianza è del prof. Arnaldo Balbi Guarinoni che all’epoca dei bombardamento era uno studente di medicina che lavorava all’Ospedale civile:
«San Donà era una zona piuttosto calda ed era da qualche giorno sorvolata di continuo da delle fortezze volanti, quella mattina volavano più basso del solito. Qualche attimo prima delle 11 avevamo intuito il pericolo e con alcuni pazienti ho abbandonato l’ospedale trovando rifugio sotto le mura di cinta. Ho visto le fortezze volanti sopra di me, ho gridato “semo morti”. Poco dopo siamo stati avvolti da palle di fuoco, colpi tremendi, sembrava la fine del mondo. Quando mi sono rialzato, quelli che erano con me non c’erano più, nemmeno il bambino che avevo sotto il braccio e del quale non sapevo nemmeno il nome. L’ospedale era completamente distrutto...»
Ovunque macerie fumanti a invadere le strade
La casa Girardi in Viale Margherita
In viale Margherita oltre all’ospedale furono colpite anche le carceri e il panificio Fasan.
Danni anche al Palazzo Comunale, alla Centrale dei telefoni di Stato, alla scuola elementare del centro.
In via Ancillotto venne distrutto anche il teatro Verdi, con la vicina tipografia SPES,
il panificio Trivellini. Ingenti danni subì anche il Piccolo Rifugio.
Come racconta Savio Teker nel suo libro,
Lucia Schiavinato alle prime avvisaglie aveva fatto uscire quanti più ospiti fosse possibile mettendoli al riparo di un vicino fossato. Le bombe colpirono l’edificio, quando fu tornata la calma immaginando quel che avrebbe trovato all’interno cercò di correre verso il vicino ospedale per chiamare un medico, ma fece solo pochi passi, l’ospedale non esisteva più.
Al Piccolo Rifugio saranno sei le vittime. Molti saranno comunque i medici che miracolosamente si salvarono dalla distruzione dell’ospedale e che subito si prodigarono nel soccorrere i feriti. A decine furono i feriti curati sul posto, tanti quelli trasportati con mezzi di fortuna verso altri ospedali. Ovunque un panorama di case danneggiate e di sopravvissuti alla strenua ricerca dei propri cari e delle loro povere cose da salvare tra le macerie. Per molti anche quel poco era ben poca cosa perché il tutto era racchiuso in baracche che niente potevano opporre all’impeto delle esplosioni di un bombardamento. Una settantina furono le case distrutte, altrettante quelle danneggiate. Ai tanti sfollati delle settimane precedenti che avevano lasciato San Donà si aggiunsero ora i tanti che la loro casa l’avevano perduta, o che abbandonata momentaneamente la ritrovarono distrutta. Un’emergenza che San Donà visse per molti anni a venire di un dopoguerra non troppo lontano, ma che per chi stava vivendo quelle tragedie era ancora solo una speranza.
Scriveva l’inviato Alfonso Comaschi:
Chi entra in Paese dalla strada di Venezia intuisce la gravità della tragedia: a destra e a sinistra dell’arteria principale infatti i maggiori edifici appaiono irrimediabilmente distrutti. Un cratere immenso sbarra la via nel fondo di essa: una sedia in frantumi e una bottiglia intera. Poco più avanti le macerie della Pretura e dell’edificio delle Assicurazioni «La Cattolica», che le sorgeva di fronte, si sono quasi riunite attraverso la via. Anche l’albergo del «Leon Bianco» mostra tra le imposte sconnesse e tra le larghe fenditure dei muri le rovine dell’interno.Via Giannino Ancillotto presenta un aspetto se è possibile ancora più desolato: sulla destra il grandioso edificio del teatro Verdi e altri minori immobili sono completamente rasi al suolo fra le innumerevoli voragini aperte da altre bombe che sono cadute nelle vicinanze; anche Piazza Margherita, così aggraziata nella sua cintura di verde, denuncia subito le sue ferite di guerra e più avanti tutta Via Dante è un solo ammasso di macerie.
Così pure il Piccolo Rifugio appare irrimediabilmente colpito. Era quest’ultimo un ricoveri di vecchi [...] È il primo dei luoghi più colpiti, ed è quello che ha subito i danni minori; pure tra le sue macerie rinserra ancora delle vittime. Infatti all’angolo di Viale Margherita la Casa di Ricovero, che fu dedicata ai Caduti della guerra scorsa, pur mantenendo un aspetto non molto dissimile dall’ordinario nelle sue linee esterne, sembra stranamente vuotata dall’interno e rivela gli irreparabili guasti dell’edificio la cui rovina suona doppiamente sacrilegio e per lo scopo cui esso era destinato, in quanto raccoglieva quasi un centinaio di vecchi e per l’affronto fatto alla memoria dei Caduti in onore dei quali era stato innalzato.
Di fronte un gruppo di case è irreparabilmente danneggiato e, accanto, un’abitazione civile è stata quasi fatta scomparire dalla violenza dell’esplosione. In questa zona è caduto il maggior numero di bombe in quanto costituisce evidentemente il nucleo dell’obbiettivo. Sembrerebbe impossibile perché proprio qui sorgeva l’Ospedale Civile, ma il centinaio di bombe che vi sono state sganciate non lascia dubbi in proposito.
Gli aerei nemici erano apparsi sul cielo di San Donà verso le 11; erano chiaramente distinguibili dato che a causa del soffitto di nubi molto basso, volavano a quota inferiore alla solita, poco più di un migliaio di metri; anzi, prima che il grosso, a varie ondate si avvicendasse con larghi e lenti giri sull’obbiettivo, un primo gruppo di aerei, da minor altezza sganciava le prime bombe, verosimilmente per circoscrivere il bersaglio. E il bersaglio non poteva essere che l’Ospedale civile malgrado fosse chiaramente distinguibile come tale anche per la pianta a corpo centrale e dai padiglioni, caratteristica di tali tipi di moderni edifici, oltre che per il fatto di essere in maniera inequivocabile contrassegnato dagli emblemi della Croce Rossa.
La Pianta dell’ospedale con i vari padiglioni a solo piano terra
L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944L’ospedale era un edificio a tre piani e di vari padiglioni; bisogna dire era, perché oggi non si può assolutamente dare neppure il nome di edificio a questo misero ammasso di mattoni e di solette di cemento, di tralicci e di architravi che ingombravano il terreno una volta coperto dalla raccolta ombra dei pini marittimi, ruderi sparsi a ricolmare le voragini delle esplosioni.
Dei tre piani della costruzione centrale sono rimaste in piedi tre colonne;
della Cappella un muro che minaccia di crollare, alla base di questo si intravvede, sotto il velo di polvere, presso un angelo decapitato d’alabastro la tovaglia dell’altare. Passando di qua, qualche secondo dopo la rovina, col cuore stretto, nel tentativo di portare aiuto a chi aiuto potesse ancora ricevere, il primario prof. Binotto, ancora stordito dallo scroscio della rovina, si sentiva chiamare per nome; era Don Carlo il Cappellano che era rimasto seppellito, vivo fortunatamente, sotto le macerie della Chiesetta dedicata a Sant’Antonio.
Il primario del resto, come tutti gli altri medici possono veramente dirsi salvi per miracolo, in quanto tutti, si trovavano sul posto, che naturalmente non abbandonarono durante l’incursione. Anche il Commissario Prefettizio Ronchi che pure si trovava in sede e vi rimase durante la distruzione, si prodigò per i primi soccorsi. Purtroppo due suore hanno trovato la morte accanto ai loro malati; una gravemente ferita; un’altra, che è stata dissepolta dopo cinque ore, versa pure in gravissime condizioni. Anche un’assistente sanitaria è morta al suo posto; era la figlia del dott. Veronese, l’odontoiatra della cittadina.
È forse impossibile descrivere lo stato dei padiglioni; quello più intatto – ma si può dire così di questa vasta sala dal soffitto completamente sforacchiato? – è il reparto maschile di chirurgia ed è forse più squallido di quello che non siano le sale totalmente rase al suolo. I letti hanno ancora le lenzuola tese, i comodini sono in parte arrovesciati dalla violenza dello spostamento d’aria e hanno sparso le poche suppellettili dei ricoverati; la fotografia di un bambino o un libro, l’immagine di un Santo o «parole incrociate» lasciate interrotte. Sopra un letto c’è ancora un cartoccio d’uva; su tutto pesa, come un incubo, il velo di polvere sollevato dallo scoppio, che traveste di una nevicata macabra i poveri oggetti che popolano le corsie degli ospedali. Più avanti nella sala operatoria, la lampada «sine-umbra», miracolosamente intatta, oscilla, appesa ai fili della sospensione; sotto, nella devastazione, la stanza rivela l’aspetto tipico di un’operazione appena terminata. Il paziente, appena finito di operare, strappato si può dire alla morte dalla mano fraterna del chirurgo, è stato travolto e ucciso dal crollo della sala, dove era stato riportato. Ma le perdite più gravi si sono avite nel padiglione ostetrico. Tutte le puerpere vi hanno trovato un’orribile morte; meno una: questa però ha avuto lo strazio di vedersi orbata della creatura appena nata.
Fuori del recinto dell’ospedale, poco più avanti, fuori del viale Margherita, gli abitanti del popolare quartiere dei «Sabbioni» cercano fra le rovine delle loro modeste casette le poche suppellettili che si son salvate o la reliquia di qualche oggetto caro. Sono dei lavoratori che, per la maggior parte avevano costruito la casa con i loro risparmi; qualcuno materialmente con le sue mani; una vecchia rialza dalle rovine in cui sta frugando il volto sbigottito dall’orrore e dall’amarezza e chiede meccanicamente: «Perché?»; e il silenzio della città deserta sembra riempirsi di questa vana interrogazione senza risposta.
Questi i nominativi dei 45 caduti del tragico bombardamento del 10 ottobre 1944, alcuni lungo la pubblica via,
altri nelle loro abitazioni, una buona parte in ospedale:
i fratelli Gonellotto Angelino (23 anni) e Silvio (18), braccianti, sulla pubblica via;
Ianna Sofia (40 anni), casalinga, sulla pubblica via;
Boccato Angelo (60 anni), fruttivendolo, nella sua abitazione;
i soldati Crespi Francesco (20 anni) e Nardo Luigi (28 anni) sulla pubblica via;
il soldato Raccanelli Isidoro (37 anni), in abitazione; Turchetto Pasquale (18 anni), bracciante, in abitazione;
il possidente Bortolotto Giuseppe (68 anni) e la moglie Bertoncello Elena (65 anni) nella loro abitazione;
Cecchetto Regina (78 anni), Centioli Teresa (19 anni), Stefani Teresa Jolanda (28 anni),
Vallese Irma (39 anni), tutte casalinghe, nelle loro case;
questi quelli che morirono in ospedale: Biancotto Antonio (50 anni), manovale;
Fantin Antonio (63 anni) bracciante; Segato Venanzio (15 anni), mezzadro;
Penso Paolo (55 anni), impiegato, mentre la moglie Vescovo Clorinda (52 anni), casalinga, morì sulla pubblica via;
Bizzaro Anna (48 anni), casalinga; Perissinotto Angela (35 anni), casalinga;
Tonon Maria (40 anni), casalinga; Bottan Anna (59 anni), lavandaia presso ospedale;
Veronese Lucia (16 anni), studentessa; Contarin Veronica (40 anni), infermiera;
Rovere Rina (25 anni), infermiera; Luppi Giuseppina “suor Ildefonsa” (40 anni), suora;
Giusto Maria “suor Angiolina” (33 anni), suora; Badanai Santa (41 anni), casalinga;
Bonora Iolanda (30 anni), casalinga e il figlio Fusaro Dante (15 giorni);
Bortoluzzi Luigia (40 anni), casalinga; Cappelletto Gina (19 anni), casalinga; Gaiotto Maria (67 anni), casalinga;
Bobbo Maria (25 anni), casalinga, e la figlia Merani Rita (3 giorni);
Ongaro Giuseppe (35 anni), bracciante; Tolon Giuseppe (12 anni);
Cupresi Casimira (6 giorni); Sari Jolanda (25 anni) (di lei furono trovati solo dei resti umani
che solo in secondo tempo furono associati al suo nome);
questi quelli che morirono nel Piccolo Rifugio
Bellese Maria (3 anni); Orlando Maria (81 anni), invalida; Fingolo Maria (77 anni), invalida;
Trevisiol Giovanna (8 anni); Maschietto Antonio (76 anni), invalido.
I funerali dei bombardamenti di ottobre 1944 (archivio Giovanni Striuli)
Aerei e bombardamenti. In quei primi mesi di bombardamenti il “Pippo” (il Piper), il bimotore da ricognizione
alleato che faceva pì-po-pì-po-pì-po-pì-po-pì-po, era già figura nota;
divenne familiare. Di notte era
già obbligatorio l’oscuramento. Coloro che abitavano lungo la ferrovia, obbiettivo militare degli aerei alleati,
erano già stati invitati a trasferirsi altrove, almeno per la notte; in molti andavano a dormire
nelle “tiese” delle case dei parenti che abitavano in aperta campagna.
Ma in particolare la distruzione dell’ospedale (dato che il nemico non aveva nessun rispetto per la vita umana)
indusse molti ad abbandonare il centro cittadino.
Seguirono altri bombardamenti, seppure non con quelle stesse tragiche conseguenze.
Tra tutti si ricorda quello del 22 novembre che distrusse ancor di più il ponte della ferrovia.
Ricorda Savio Taker nel suo libro il numero delle famiglie sfollate e i paesi dei dintorni
nei quali erano state accolte. Con scrupolo all’epoca Monsignor Saretta tenne aggiornato questo elenco
con tanto di pubblicazione nel foglietto parrocchiale e a turno si recava nei vari paesi a visitare
le famiglie sfollate, l’arciprete non aveva dimenticato della perigliosa profuganza a cui lui
e tanti sandonatesi erano stati costretti durante la prima guerra mondiale. Tanti mesi mancavano
prima di arrivare alla fine della guerra e le tragedie non erano ancora terminate. L’emergenza principale
dopo quel tragico bombardamento fu sostituire l’ospedale che da allora venne trasferito provvisoriamente
presso Villa Ancillotto. Solo nel dopoguerra sarebbe iniziata la costruzione del nuovo Ospedale Civile
dove ancor oggi si trova.
Il 22 novembre 1944 gli aerei Alleati abbatterono due campate del ponte stradale (il Ponte della Vittoria),
dalla parte di Musile, e nessuno poté più passare in bici da San Donà a Musile e a Croce. A Musile morì
una bambina di 4 anni, la Adriana montagner, raggiunta da uno scoppio che colpì la sua abitazione,
e rimase ferito il fratellino di 7 anni.
Per ovviare alla distruzione, fu messo in piedi un pass di barche, controllato da una pattuglia
di camicie nere.
(MdB Busta 453 anno 44/45 “Locali scuola avviamento sede di campagna - affitto” 9.4.3)
Con delibera del 30 gennaio 1945 il Commissario prefettizio
Premesso che la scuola di avviamento professionale il cui fabbricato è stato da tempo occupato da Comandi Militari Germanici si è trovata nella necessità di trasferirsi come centro assistenziale dei numerosi giovani iscritti alla scuola, in un locale di fortuna sito al n. 89 della frazione di Calvecchia di proprietà del signor Colosso GiovanniLa cifra concordata per l'affitto è di lire 150 al mese.
[dai ricordi di Beniamino Montagner]
Una colonna di tedeschi scese dal treno sull’Argine San Marco e proseguì lungo l’Argine verso Musile. Erano stanchi, affaticati, forse si sentivano braccati. All’incrocio dell’argine con la strada che a sinistra portava dai Pavan e dall’altra dai Montagner, l’ufficiale tedesco vide tre o quattro ragazzi, tra cui me, che avevo diciotto anni, che tornavamo dal Piave dove avevamo fatto il bagno. «Du, komm, komm!» mi disse l’ufficiale con un tono che non ammetteva repliche. Io ero ancora in mudandete ma il tedesco mi ordinò ugualmente di seguirli; quando la colonna giunse da Roncaglia, l’ufficiale scese dall’argine e andò nella casa a requisire una carriola, una di quelle pesanti carriole di legno per i lavori nei campi; i soldati ci caricarono sopra i loro zaini e l’ufficiale mi diede ordine di cominciare a spingerla; la notizia che ero stato sequestrato era intanto arrivata all’orecchio di mia madre, che già temeva d’aver perduto il figlio; continuai a spingere la carriola fino alle albere, ossia all’incrocio del Bar Salmasi, poi il tedesco diede ordine a Gusto Davanzo, un altro dei sequestrati, di darmi il cambio, e Gusto la menò fino all’inizio della rampa, poi toccò a un altro ancora spingerla su per la rampa e poi fino all’imboccatura del pass di barche, che sostituiva il ponte distrutto. La camicia nera a capo di una pattuglia di quattro che controllava il funzionamento del pass di barche in quel momento era Miozzo da Jesolo. Noi giovanotti fummo costretti a seguire i Tedeschi fino alla stazione di San Donà. L’ufficiale tedesco mi fece capire che la mia sorte sarebbe stata di seguire i Tedeschi fino a Vienna, ma io, approfittando della confusione, scavalcai la siepe e capitai a casa dei Korcz, di Carlo Korcz di cui conoscevo la sorella che lavorava […] Io avevo freddo e lei mi diede una maglietta della O.N.B. con la quale, sempre a piedi tornai a casa. Avevo paura, perché non sapevi mai come reagivano i tedeschi. Tornai qualche giorno dopo a restituire la maglietta alla Korcz.
Mons. Luigi Saretta, arciprete di San Donà, che era rimasto assieme alla popolazione durante
tutti gli anni anche di questa guerra, in particolare durante i tragici bombardamenti degli alleati
che avevano colpito San Donà a partire dal luglio 1944 e che erano continuati in questo inizio di 1945,
con numerose vittime tra i civili, così si esprimeva il 1 aprile 1945: “Auguro a tutti buona Pasqua.
Siamo ancora in mezzo alle tribolazioni, agli spaventi e alla morte, ma coraggio!
Con l'aiuto di Dio, supereremo tutte le prove e tornerà finalmente il giorno della pace e della gioia…“
Una settimana dopo, l'8 aprile, sempre dalle pagine del Foglietto parrocchiale, raccomandava
di rimanere “attenti alle farfalle volanti”, gli ordigni lanciati dagli alleati che avevano già causato la morte di un giovane.
Il 15 aprile, quando ormai soffiava l'aria della liberazione, mons. Saretta ammoniva i fedeli
a non cadere nella tentazione dell'odio e della vendetta che potevano scatenarsi:
“L'ora che passa è arroventata da un clima di odio e di vendetta… Il nostro cuore è straziato, più che dalle rovine e dai quotidiani spaventi della guerra, dalle voci e dai propositi di vendetta che risuonano minacciosi anche in mezzo al popolo cristiano… Ciò è spaventoso: l'omicidio volontario è un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio. Bisogna finirla. Basta col sangue…“Nelle giornate che seguirono, sicuramente questo monito fu tenuto presente (molti dei partigiani erano giovani cattolici, conosciuti da Saretta), visto il contenuto numero di vittime negli scontri nel Sandonatese.
Il 20 aprile si verificò uno degli episodi più controversi della storia locale: Arturo Antoniazzi, insieme con Montagner Luigi, Mariuzzo Bruno, Farinello Giuseppe, Celussi Esterino, Egidio Moino, si avventurarono nella zona di Meolo alla ricerca di viveri per il reparto di Meolo; lì Antoniazzi mandò il Montagner e il Farinello in una casa vicino a casa Vidotto, con l’ordine di tornare a mezzogiorno per il pranzo. A una certa ora (alle 14), non avendoli visti più tornare, gli altri andarono in cerca di loro e arrivati a casa Vidotto furono fatti prigionieri dai partigiani. Dentro casa videro Montagner e Farinello seduti al tavolo con altri patrioti. Il partigiano “Laura” interrogò il Moino, e poiché ne conosceva la sorella, lo lasciò andare. Erano partigiani di varie bande, tra cui quella del feroce ‘Falco’ – il boia della cartiera di Mignagola – e provvidero a impiccare i prigionieri, cui, ultimo sfregio, tagliarono gli attributi e glieli ficcaronoin bocca. Due giorni dopo, non vedendoli rientrare, altri quattro uomini delle Gnr si misero sulle loro tracce, ma giunti a Meolo, caddero in trappola e subirono identica sorte.
A guerra finita si moriva ancora.
28 aprile [volantino funebre]:
“sotto i colpi della barbaria nazista cadevano il Maresciallo Natale Michelangelo e Montagner Egidio di Fulgenzio, di anni 20, intrepidi e arditi combattenti, già distintisi in parecchie azioni di sabotaggio contro l’organizzazione militare nemica”. |
Alle 8 del mattino del 25 aprile 1945, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), il cui comando era riunito nel Collegio Salesiano Sant'Ambrogio di Via Copernico a Milano, decise l'insurrezione contro i nazi-fascisti. Sandro Pertini esortò dalla radio tutte le forze partigiane attive nel Nord Italia, facenti parte del Corpo Volontari per la Libertà, ad attaccare i presidi fascisti e tedeschi imponendo la resa, giorni prima dell'arrivo delle truppe alleate:
«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l'occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine…» (dal proclama di Sandro Pertini del 25 aprile 1945).
Bologna era già stata liberata il 21 aprile. Genova aveva iniziato l'insurrezione il giorno prima, il 24 aprile, e già il 25 i tedeschi si arrendevano ai partigiani. Quello stesso giorno iniziò l'insurrezione a Milano, mentre a Torino il 26 aprile.
Anche a San Donà e in tutto il territorio le forze partigiane si mobilitarono. Dal 26 al 29 aprile
(giorno dell'arrivo – nel tardo pomeriggio – delle forze alleate americane e neo-zelandesi) in diversi luoghi
del Basso Piave (San Donà, Musile, Noventa, Eraclea, Caposile…) ci furono scontri e combattimenti tra partigiani
e forze nazi-fasciste (composte da tedeschi e italiani), con morti tra i partigiani, militari e civili inermi.
In particolare, il pomeriggio del 26 aprile i partigiani (molti erano giovani cattolici) fecero prigionieri
tutti i tedeschi di San Donà: rimasero uccisi negli scontri tre partigiani e un militare tedesco.
La Caserma San Marco (che si trovava nel luogo degli omonimi Giardini)
e l'Oratorio Don Bosco (i Salesiani erano sfollati a Casa Montagner nella seconda settimana
di ottobre 1944 e vi sarebbero ritornati l'8 maggio '45) divennero le affollate prigioni
per le milizie catturate dai partigiani (all'Oratorio furono rinchiusi oltre mille prigionieri tedeschi).
Il 26 aprile sarebbe stato pertanto ricordato come il giorno della liberazione di San Donà
(come inciso in una lapide marmorea collocata sotto il porticato del Municipio).
Il 29 aprile 1945 giunse finalmente anche per Croce e per Musile la fatidica ‘Liberazione’. Una colonna di carri armati
americani passò per la Triestina verso la Strada Matta, un tedesco uscì dai campi e li affrontò col fucile ma fu subito
ucciso dagli americani e in seguito seppellito nel campo di fronte alla casa del Colonnello Gioia. I soldati
d’oltreoceano, sani e belli come il sole, regalavano sorrisi e saluti a tutti coloro che accorrevano
ad ammirarli e festeggiarli; distribuivano a piene mani cioccolate e chewingum ai bambini, e caffè e
latte in scatola alle donne, e sigarette agli uomini, e mandavano baci alle ragazze del paese e la Rina C.,
una delle ragazze più belle ed estroverse del paese, li ricambiava, scatenando la gelosia del marito.
I carri armati e le camionette poi entrarono per via Croce e giunsero in piazza e
lì tutti si misero a ballare. I mezzi militari si piazzarono davanti alle scuole, nel Prà
delle oche.
Chi si era rifugiato nella cella campanaria e alla base del campanile uscì per far festa e tutti si misero
a suonare l’armonica e la fisarmonica e a ballare in piazza per la gioia, uomini con uomini
e donne con donne, ma anche uomini con donne e donne con uomini, non sempre della stessa famiglia,
tanto che don Ferruccio fece suonare a distesa le campane per impedire il ballo: tutto il giorno
le fece suonare, perché la gente, trasportata dal ballo, non cadesse nelle tentazioni
lascive di guardare e toccare.
I carri armati proseguirono sull'argine, arrivarono a Musile e liberarono anche Musile. E finalmente arrivarono a San Donà, che si era liberata da sola.
Entro il 1º maggio tutta l'Italia settentrionale era liberata.
La resa definitiva delle forze nazifasciste all'esercito alleato, che segnò
la fine della guerra sul territorio italiano, si ebbe il 3 maggio, come stabilito
formalmente dai rappresentanti delle forze in campo con la firma della
resa di Caserta (29 aprile 1945).
Finalmente il desiderio di pace e libertà si concretizzò un paio di settimane dopo
e, dalle pagine del Foglietto Parrocchiale del 13 maggio, il Parroco poteva esprimere
il suo giubilo e fede, memore del voto fatto alla Vergine nel cortile
dell'Oratorio il 24 settembre 1943:
"Finalmente liberi e riuniti con la nostra Patria! In quest'ora solenne desiderata e conquistata con tanti sacrifici e con tanto sangue, il nostro primo pensiero deve essere di riconoscenza a Dio e alla Celeste Protettrice. La Madonna ci ha salvato! A Lei ci siamo rivolti fino dal 24 Settembre del 1943 e per venti mesi in ogni casa e in tutte le manifestazioni religiose, con gli occhi gonfi di lagrime e le anime sazie di angoscia e di terrore, ogni giorno l'abbiamo invocata: Maria, Madre, salvaci! Salva la Parrocchia, salva i nostri figli, salva la nostra Patria; salva, solleva, conforta i nostri cuori affranti. E Maria ci ha salvato! (…) Non so quante incursioni siano state compiute contro la nostra Cittadina, dal mese di luglio dell'anno scorso fino all'ultima sera spaventosa, prima della liberazione. Furono sganciate migliaia di bombe e spezzoni. S. Donà avrebbe dovuto esser distrutta. Invece... le sue rovine sono molte, ma la struttura della Cittadina del Piave è intatta e in poco tempo potranno essere cancellate le sue dolorose ferite. Maria ci ha salvato! (…)"
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