Alla metà del XIII secolo la Cappella di S. Donato si trovava nella frazione di Musile
e segnava l’estremo lembo sud del territorio d'Eraclea in confine col territorio altinate o torcelliano.
Questo lembo di terra che prima della spaventevole inondazione si trovava
alla sinistra del Piave, il cui percorso seguiva approssimativamente
la linea dell'attuale argine di S. Marco, per il cambiamento dell’alveo
passò sulla destra. Avvenne quindi che alla frazione di Musile rimase la
cappella con altri 1000 ettari di terreno e al rimanente territorio
con oltre 8500 ettari restò il nome di S. Donato. Il cambiamento d’alveo
del Piave rassomiglia in qualche modo a quello recente del 1882 che fece
passare la località Granza dalla sinistra alla destra. Come è naturale,
alla frazione distaccata così bruscamente da S. Donà rimase il nome acquistato
in precedenza e soltanto in luogo dell’appellativo «Musile di S. Donato» assunse
quello di «Musile di Croce», nome che ancora oggi si trova nelle vecchie carte,
e che si vede anche nella corografia esposta in apposito quadro nell’Ufficio comunale
intitolata «Valle del Dogato» la quale risale al 1573 e distingue nettamente
le terre alte rivierasche del Piave dalle paludi e valli da caccia e pesca,
e ricorda la preesistenza di un ponte detto «del dogado» nelle paludi della Serenissima,
accennando pure alle vestigia di questo, allora visibile.
Ma così fu raccontata in seguito.
La leggenda dei due capponi e del nome di San Donato
Nel 1250 o giù di lì una tremenda inondazione
tagliò in due il paese di san Donato, lasciando la sua chiesetta a destra del
fiume (così racconta l’Agnoletti), lasciando supporre che la chiesetta si
trovasse prima sulla sinistra e che il fiume corresse più a occidente. Quando
le acque si ritirarono le famiglie rimaste a sinistra non si persero d’animo e
con fiducia costruirono un’altra chiesa dedicandola a san Remigio, vescovo di
Reims: se lui tanti secoli prima era riuscito a conquistare il cuore del re
pagano Clodoveo battezzando tremila franchi, anche loro l’avrebbero finalmente
avuta vinta contro quegli scherzi d’acqua e del destino. Ma si sa che quando ci
si affeziona a qualcuno, sia una moglie, un figlio o un santo, è difficile d’un
tratto staccarsene. Presi dalla nostalgia gli abitanti di San Remigio vollero
in qualche modo ricordare nel nome del paese l’amato santo. Tanto fecero e
tanto pregarono che alla fine convinsero i vicini di Musile a lasciare alla
frazione cresciuta intorno alla cappella di San Remigio il nome di San Donato;
Musile, dal canto suo, conservò il titolo nella chiesa parrocchiale. Ciascun
paese possedeva dunque un importante riferimento a san Donato e la questione,
che rischiava di degenerare in rivalità accesa fra le frazioni, fu finalmente
risolta, con la donazione di un paio di “gallos eviratos”.
La cerimonia
organizzata per suggellare quello che ancor oggi si chiama “Patto di amistà”
risale al 7 agosto di un anno imprecisato del XVI secolo, è citata in un articolo
del Gazzettino di inizio XX secolo (dove i capponi scmabiati erano quattro) e fu rinverdita,
con un mirabile e buffonesco falso storico dal latino maccheronico, nel 1957,
dai sindaci di allora e da io io
Guido De Nobili che, non ricordando che qualcosa
di simile esisteva comunque prima di lui, vantò in seguito la paternità totale dell'invenzione.
Nel contesto di una
tarda azione di recupero di beni già patriarcali apprendiamo di una
dichiarazione rilasciata il 31 ottobre 1253 da Reprandino, procuratore di
Alberico da Romano, al patriarca Gregorio da Montelongo, nella quale elencava
tutti beni tenuti in feudo: la corte di Medade con il castellar
di Medade, le ville di Medade, Angaran, Carpenedo, Gonfo, Pralongo, Ansom
(Zenson?), Meolo, Mardegane, il porto di Meolo e la villa di Croce.
[Museo Correr di Venezia, ms. PD-C 970/16, 23 aprile 1464]
La riconciliazione di Alberico col fratello Ezzelino (1257) avvenne in un periodo di difficoltà per
entambi: contro di loro la Chiesa emise condanna di scomunica e indisse una
crociata di liberazione dai perfidi “tiranni”,
alla quale concorsero i numerosi fuoriusciti di Treviso, raccoltisi in Venezia.
Il gastaldo Almerico di Sacile prese possesso del castello di Mussa
a nome del patriarca di Aquileia, Gregorio da Montelongo, il 13 novembre 1259.
[Pio Paschini, Gregorio di Montelongo patriarca d'Aquileia (1251-1269),
in Memorie Storiche Forogiuliesi, Udine, Regia deputazione friulana di storia patria, 1921, p.27]
La drammatica fine della stagione ezzeliniana, protrattasi per oltre un secolo
culminò con la “strage di San Bartolomeo” in cui l’intera famiglia dei da
Romano venne annientata nel castello di San Zenone (1260).
Il Consiglio Maggiore della città di Treviso
provvide a incamerare i feudi della famiglia, e dando per certi anche i diritti
di subingresso nell’avvocazia ezzeliniana sui feudi e sui beni dell’abbazia del
Pero, fece occupare i boschi della Martellia (Marteggia) e della Silvella
presso la Piave.
Nell’anno 1260 il Podestà di Treviso ordinò un catastico
dei beni della parte del territorio di S. Donà sotto la sua giurisdizione,
cioè soggetta alla Marca Trevigiana. Questo catastico enumera tanti piccoli
appezzamenti di terreno appellati «una mussetta» oppure «due mussette»;
alle persone in esso nominate tali appezzamenti con a fianco il contributo
annuo di una o due spalle di maiale salate e di una o due focacce
a Pasqua, di alcune misure di miglio, di frumento, e di vino.
In particolare - e questo ce lo dice G. B. Verci nella sua
storia degli Ezzelini, libro II pagina 440 -
il podestà imponeva alla «Curiae Mussae et Sancti Donati»
il pagamento di tributi sui prodotti agricoli, ovvero
misure di frumento, dei polli, del vino e altri generi alimentari
sul prodotto del territorio alla curia soggetto.
Dal complesso del catastico si rileva che i pezzi di terreno
elencati erano coltivati a viti e cereali, che l’uso di tener maiali
era diffusissimo e che i nomi di Musse o Mussette erano dati
ai piccoli appezzamenti di terreno preservati dalle acque dei fiumi,
che queste musse e mussette appartenevano alla Marca Trevigiana
che confinava col territorio di proprietà della Venezia marittima,
e che la terra di S. Donà apparteneva a diverse podesterie e a diversi governi.
L'anno dopo, nel 1261, il podestà trevigiano avocò
a sé la «Curia di Mussa e di San Donato e la Villa di Croce appresso la
Piave»
[A. Marchesan, Treviso Medievale,Treviso 1924]
nonostante l’opposizione del patriarca aquileiese che le avrebbe
rivolute indietro. Nell’impossibilità di riaverli indietro, il patriarca di
Aquileia Gregorio da Montelongo vendette allora la prima al veneziano Marco
Querini e la Villa di Croce al Nobil Homo Albertino Morosini di Venezia. Si
scatenò una contesa tra il Comune di Treviso e il patriarca di Aquileia,
inframmezzata da qualche calamità naturale:
1269: carestia causata da una cattiva annata agricola; e scossa di terremoto;
1276: alluvione; e inverno particolarmente rigido;
Passata, dunque, al libero Comune di Treviso, Mussetta fu donata come dote nuziale alla
poetessa Gaia da Camino per il suo matrimonio con il cugino, Tolberto III.
[Giovanni Battista Picotti, I Caminesi e la loro Signoria in Treviso dal 1283 al 1313, Roma, Multigrafica, 1975].
Cunizza, unica sopravvissuta dei da Romano, ritenendo di avere ancora dei diritti sul feudo
ne fece atto di donazione ai suoi nipoti, i Conti di Mangona, il 10 giugno 1279.
[Carlo Milanesi, Atto di donazione di Cunizza da Romano al Conte Alessandro da Mangona, in Giornale storico degli archivi toscani, vol. 2, Firenze, G. P. Vieusseux, 1858, pag. 290]
[Angelo Marchesan, Treviso medievale. Istituzioni, usi, costumi, aneddoti, curiosità, presentazione e aggiornamento bibliografico di Luciano Gargan, 3ª ed., Bologna, Atesa, 1990, pag. 275]
1285: terremoto;
1287: carestia causata da una cattiva annata agricola; tutto il Veneto è attanagliato dalla fame.
Le calamità seguivano i ritmi della tombola.
La deviazione dell'alveo del Piave, che aveva comportato la separazione della chiesa dal suo territorio di riferimento,
comportò anche che si cominciò a dire San Donato de qua de la Piave per distinguerlo da quello attiguo alla cappella: San Donato oltre la Piave
(l'attuale Musile di Piave).
Solo nel 1291 il patriarca rinunciò ai propri
diritti giurisdizionali. Ma l’anno successivo (1292) riscoppiò la guerra: il patriarca
occupò Mussetta e ne rivendicò il possesso. Per piegare la resistenza del Comune di Treviso, il patriarca
arrivò a lanciare anche l’interdetto sulla città di Treviso e sui suoi maggiorenti.
[Giovanni Battista Verci, Storia della Marca Trivigiana e Veronese, Bologna, Sala Bolognese Forni, 1980]
Lo stesso patriarca vendette in quell'anno 1292 il feudo di Mussetta
al patrizio veneziano Marco Querini,
vendita che scatenò la guerra fra il patriarca e Treviso.
L’interdetto su Treviso fu sospeso nel 1295 allorché si stabilì una tregua d’armi e
una risoluzione che attribuì Mussetta al Comune di Treviso,
che affidò a sua volta la gestione del feudo alla potente famiglia dei Da Camino.
[Romanin]
Un documento del 3 novembre 1296 [citato da A. Marchesan in Treviso medievale app. 10] riferisce che il
patriarca Benedettino Raimondo non fu mai in possesso della Villa di Croce,
bensì lo era stato il patriarca Gregorio da Montelongo, il quale verso il 1260
aveva consegnato tale possesso al Nobil Homo Albertino Morosini di Venezia.
Sembra insomma che il patriarca avesse ceduto Croce, oltre il Piave, e mirasse
a tenere Mussetta e San Donato. L’interdetto su Treviso fu ritirato nel 1297
quando un nuovo arbitrato attribuì a Treviso la località di Croce.
1301: «Dopo April peste, gran mortalità, 30 novembre
ad ora di Vespero gran terremoto, durò 10 giorni».
[G.B. Galliccioli, Delle memorie venete antiche profane e
ecclesiastiche, Venezia 1745]
San Donà di Piave... provincia di Venezia
Dopo esser cresciuta sul
mare, Venezia stava cominciando a rivolgersi alla terra ferma; a uno a uno i
territori vicini alla laguna finivano in mano alla Repubblica.
Il territorio di Croce (con Musile, che
però nonostante la presenza della chiesa di san Donato, era ancora un’esigua e
paludosa striscia di terra lungo la Piave) fu compreso in quello che fu
denominato “Dogado” prima e “Rason Vece” poi. Compito del Dogado era la
“conservazione dei diritti sopra i terreni, acque, palude, ed altri averi di
pubblica ragione”, “non meno che la tutela delle strade e canali interni della
Dominante, onde vigilare...”.
S. Donà invece apparteneva per giurisdizione civile in parte a Treviso (Mussette),
in parte a Oderzo (Grassaga) e in parte a Torcello (Musile, Chiesanova e Passarella).
Il suo territorio, come in passato, abbondava di corsi d’acqua e non vi era punto
in cui non si sentissero gli effetti della malaria.
Vi erano alcuni castelli nelle mussette.
Nel 1300 si parlava dei castelli di Mussa e Mussetta e S. Armelio
come di luoghi compresi nel territorio di S. Donà, parte trevigiana.
Per quanto riguarda la parte vinixiana,
“Fra le molte
Magistrature istituite ad esigere, a perseverare con assidua vigilanza le
pubbliche rendite del Principato occupavano luogo distinto li due Uffici delle
Rason Vecchie e Nuove”. E ancora: “Continuando nei Dogi il
diritto di far eseguire le sentenze delle già istituite Magistrature,
esercitavano questa loro giurisdizione col mezzo de’ loro Ministri, detti
Commandadori…”
Ma anche per mezzo dei
Commandadori era faticosa da Venezia l’amministrazione di questi luoghi: “Sì
fatta pratica fu in questo secolo (XIII)… riputata troppo gravosa alla
primaria dignità della Repubblica, onde a decoro, e sollievo de’ Dogi
si istituì un ufficio detto del Gastaldo”.
Il termine era rubato dalla tradizione longobarda. San Donà era ‘gastaldia’ almeno
dal 1152. “Tutti questi Tribuni e Gastaldi dipendevano dai Dogi che di tutto il
dominio tenevano il Governo”.
La sede della gastaldia, alla periferia dal lato di ponente
del grande possedimento, presso la sponda sinistra del Piave,
costituiva il maggior centro abitato con la residenza del gastaldo ducale.
I Gastaldi amministravano e si preoccupavano di inviare merci a Venezia: ovviamente
dovevano qua e là pagare dazio. In un quaderno del dazio sul pane e sul vino,
conservato nella Biblioteca Capitolare di Treviso, sotto la data 1302,
sono elencati i seguenti dazi: «sotto datio de Croce, 7 soldi grossi; Musil
(Frazione di S. Donà) comuni tervisii, 32 lire piccoli; S. Donato del Plavi
(Mussetta), 26 denari grossi».
Quell’anno vi era stato un inverno
particolarmente rigido.
Le palade
Le “palade” erano le
barriere doganali veneziane e trevigiane poste sul Piave o sulle sue varie
diramazioni per controllare il
commercio fluviale fra i due stati: poiché Croce era al confine tra i due stati
deduciamo che qualcuna delle palade dovesse trovarsi nel suo acquitorio. Nel
1302 Venezia codificò le norme cui dovevano soggiacere le palade (Treviso
l’avrebbe fatto nel 1328): esse dovevano stare aperte solo in tempo di pace e
solo dall’alba al tramonto in modo da consentire ad appositi funzionari di
controllare sia il passaggio dei viaggiatori che delle merci, riscuotendo le
eventuali imposte. Forti multe venivano comminate a chi evitava di accostarsi
alla palada con la barca e anche per quei custodi che non ispezionavano
attentamente i carichi favorendo l’evasione fiscale e il contrabbando.
Dazi e balzelli si
aggiungevano alle decime e ai taglieggiamenti che proprietari e fattori
imponevano ai coloni, per cui a questi ultimi rimaneva appena di che
sopravvivere: bastava un’annata agraria avversa perché si verificasse una
carestia. E anche quella era una musica che non finiva mai:
1304: inondazione;
1314: una spaventosa
inondazione della Piave nell’autunno precedente è alla base di una terribile
carestia; [G.B. Verci]
1317: inondazione e scossa di terremoto; ma si ha anche una eccezionale produzione di uva.
1318: carestia;
1318-19: inverno rigidissimo, gelarono i fiumi.
...provvisoriamente sotto gli Scaligeri
La perdita di prestigio dell’abbazia del Pero andava di pari passo
col venir meno dell’autonomia da Treviso, un tempo garantita dai forti legami
con Aquileia. Cambiate le circostanze, era invece Aquileia ad aver infeudato
dei suoi beni trevigiani i da Camino. Il ruolo della potente famiglia
trevigiana rappresentò per l’abbazia un baluardo a difesa dal nuovo dominio
scaligero, affermatosi nel 1329 con la conquista di Treviso, in seguito a
una lunga guerra condotta da Cangrande della Scala.
Mentre il territorio veniva saccheggiato dalle truppe
scaligere, in data 9 agosto 1329 il
podestà di Treviso Pietro dal Verme ordinò agli uomini di Zenson, Fossalta, San
Donato e Croce di Piave di inviare a Treviso le armi e i cavalli tolti a forza
ai soldati di Can Grande della scala durante la guerra sotto minaccia di multe
gravissime; ma trovò risposte ostili dal mariga di Zenson, che temeva i signori
Da Camino, ben saldi nei castelli di Mussa, Mussetta e Sant’Armelio; in aiuto
dei locali intervenne la Repubblica Veneta.
[Pavanello: La città di Altino, Treviso 1900, p. 148].
1330: inondazione.
Esser finiti sotto
l’orbita degli scaligeri comportò misure fiscali e obblighi militari
sicuramente indesiderati. Un atto del 6
febbraio 1334 obbligava i seguenti paesi a mandare guastatori a
Bressello, dove si trovava Mastino della Scala, a proprie spese: Croce di Piave
1, Negrisia 2, Ponte di Piave 2, Noventa 1, Chiarano 2, …
[G.B. Verci, Storia della Marca Trevigiana, Venezia 1797]
1335: scossa di terremoto.
Di chi è il castello di Mussa?
Sul possesso del castello di Mussa nacquero alcune controversie
nel XIV secolo (tra Rizzardo IV da Camino e il comune di Treviso).
[Johannes Rainer, Rizzardo da Camino, in Dizionario biografico
degli italiani, vol. 17, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1974]
Prima della metà del XIV secolo la repubblica mandò via anche i castellani
della Marca Trevigiana e i confini della Venezia marittima furono allargati
colla cessione gratuita fatta da Treviso di una lista di territorio
dal lato del mare fra cui erano comprese le mussette.
Nel 1337 Paolo Da Mosto, capitano della veneta repubblica, portò dei
danni alla Mussetta, ma è probabile che tali danni siano stati cagionati
dalla necessità di approvvigionare le truppe, e fors’anche per punire
gli abitanti delle mussette che avevano fatto buona accoglienza al Carrarese,
dal Da Mosto messo in fuga per restituire alla repubblica le castella
della Marca Trevigiana regalate in ricompensa della liberazione
dalle disastrose scorrerie dei castellani.
Era l'ultimo sforzo dei Da Carrara in queste zone.
Il 5 settembre 1337 Mussa fu concessa in feudo a Morando di Porcia da Bertrand
de Saint Geniès, patriarca di Aquileia.
[Francesco Di Manzano, Annali del Friuli ossia raccolta
delle cose storiche appartenenti a questa regione, vol. 4, Udine, Trombetti-Murero, 1862, pag, 419]
[G. B. Verci, Storia degli Eccelini, vol. 3, Venezia, Picotti, 1841, pag. 351]
1339: Treviso definitivamente sotto la Serenissima
Il dominio degli
scaligeri non durò a lungo: proprio il possesso di quest’area e dei castelli di
Oderzo e Motta di Livenza determinò una guerra con Venezia, guerra che si
concluse il 24 gennaio 1339 con il passaggio
di Treviso e tutti i suoi territori sotto la signoria di Venezia. Più
propriamente si trattò di un atto di dedizione.
Tali territori erano ancora in gran parte ricoperti di boschi,
come rivela un resoconto finanziario
del comune di Treviso dell’anno 1340 (Treviso da due anni era
l’oggetto delle mire dei signori da Carrara, signori di Padova)
da quale risulta che le rendite dei boschi
«di sotto Arzone, di Mussetta, di Navolè, di Marteia, di Onolè, di San Donà, di
Croce, … » fruttarono un incasso complessive di lire 2500.
Una singolare carestia si verificò nel 1340 o 1341,
causata da sciami di locuste, provenienti dal Friuli, che a primavera inoltrata
divorarono ogni sorta di erbe e persino la corteccia degli alberi. Contro il
flagello era impotente ogni provvedimento: le autorità offrirono persino un
premio per ogni stajo di insetti uccisi (circa 10.000 lire del 1995 per ogni
75-80 kg.). Ne consegue una carestia.
Vi si somma una pestilenza, giunta probabilmente dall'oriente, che infierirà fino al 1342. [VOLLO L. "Il Piave", Firenze 1942]
La cronaca annovera anche un terremoto e un'inondazione del Piave nel 1343.
Nella primavera del 1347 diversi fornai panificano miscelando la farina di frumento con quella di segale e di orzo;
l'annata agricola è scarsa; la carestia che ne deriva favorisce il diffondersi l’anno successivo di
una delle epidemie più gravi della storia: il morbo si
manifestava in modo così virulento che in tre giorni portava alla morte chi ne
era infettato ed era talmente contagioso che uccise quasi i 2/3 degli abitanti
del Veneto (è la famosa peste del
Boccaccio, del 1348). Si tratta di indovinare quanti sono gli abitanti
della campagna di Noventa, di Mussa...
Per quanto si andasse disboscando lo scenario rurale non si andava modificando di molto.
Il doge Dolfin nel 1358 concesse poi ad Altiniero degli Azzoni, guerriero
al servizio della repubblica i boschi di Croce e S. Armelio, Mussa e Mussetta,
in ricompensa del valore dimostrato contro gli Ungari, dei quali fu anche prigioniero.
Nel gennanio del 1359 cadde così tanta neve che i buoi
non riuscivano a trainare i carri. In quell’anno vi fu anche una inondazione.
Nel 1361–1363 un pestilenza di
una violenza pari a quella del ’48 quasi dimezzò la popolazione della
regione.
L’anno successivo (1364) si ripetè l’invasione di
cavallette: gli sciami erano così sterminati che impedivano a volte il transito
per ore da un luogo all’altro, e ovviamente lasciavano il terreno spoglio
di ogni forma di vita vegetale; quell’anno fu anche avvertita una scossa di
terremoto.
Nel 1368 ancora una inondazione.
Nel 1372 si diffuse una pestilenza, la cui causa fu ravvisata in
«un maligno aspetto di Saturno e di Marte, l’uno nel segno di Vergine e l’altro
in Gemini dove non hanno dignità alcuna».
Contro la delinquenza
Nel secolo XIV i tristi precedenti delle rapine compiute dalle scomparse signorie dei Da Romano, degli Scaligeri, del Carrarese, dei Da Camin, l’allontanamento delle comunità religiose, che frenavano le cupidigie umane, lo sconforto cagionato dal succedersi rapido di tante calamità, l’assenza di autorità locali e le fitte boscaglie che nascondevano i malfattori, contribuirono a determinare una recrudescenza fatale nei reati di sangue, di stupro, ratto e furto. Il consiglio dei X, impressionato della frequenza di questi orrendi misfatti, che turbavano la quiete dei terrazzani, in data 15 aprile 1374 emanava disposizioni repressive delle malvagie tendenze, che minacciavano la vita, l’onore e gli averi di ogni classe sociale. Con queste disposizioni si conferiva ad ogni cittadino la facoltà d’impadronirsi con la forza dei colpevoli per consegnarli alla giustizia e si autorizzava perfino ad uccidere il delinquente in atto di fuggire, o di far resistenza all’intimazione d’arresto. Venivano accordati poi lauti premi sui beni dei colpiti e sulla cassa dello stato a coloro che in tal modo reprimevano i reati, a ciascuno dei quali era pure concesso di liberare un condannato al bando perpetuo, pena non indifferente in quei tempi. Come si vede il governo della repubblica con tali sistemi risparmiava spese di pubblica sicurezza e carcerarie e incitava i buoni cittadini a rendere ai paesi la tranquillità. Le disposizioni efficaci frenarono la licenza e restituirono la tranquillità, per modo che molti nobili veneziani poterono senza timori fabbricare villeggiature al posto dei castelli e dei conventi scomparsi.
Ancora guerra...
I desideri di rivalsa degli Scaligeri, le ambizioni dei da Carrara, le discordie fra i da Camino in
quel di Oderzo e le antiche rivendicazioni dei patriarchi aquileiesi produssero
negli anni successivi una serie di guerre e di mutamenti di regime che
desolarono tutto il Basso Veneto: milizie mercenarie battenti più bandiere vi
commisero impunentemente saccheggi, le violenze e i soprusi. Le ostilità si
aprirono nel 1379 allorché Venezia
si trovò a fronteggiare una lega formata da Francesco da Carrara, signore di
Padova, la Repubblica di Genova, il patriarca di Aquileia e il re d’Ungheria.
L’aspro conflitto si chiuse con la pace di Torino (1381), in cui Venezia,
resasi conto di non poter conservare il
possesso di Treviso, preferì cedere la città e il suo territorio a Leopoldo
duca d’Austria pur di non vederlo soggetto ai padovani.
Il dominio austriaco fu
però brevissimo poiché Francesco da Carrara nello stesso anno (1381) cominciò
a occupare il territorio e stringere d’assedio Treviso, sicché il duca
d’Austria preferì venire a un accordo e nel 1383 gli vendé sia la città che il
suo distretto.
A minare la tranquillità
degli abitanti di Croce, di Mussa, di San Donà... più che il mutar dei signori, fu un’altra pestilenza nel
1382, «da marzo fino ottobre. In Venezia vi morì il doge Michiel Morosini e 10 mila persone»,
peste attribuibile questa volta a una «horrenda cometa di longhezza, quanto si
poteva misurar con gli hocchi di 20 palmi», e quindi un’inondazione nel 1383.
Cacciati i Da Carrara
I da Carrara non riuscirono a tenere saldamente i territori da poco ottenuti:
nel
1388 si sollevò Treviso, imitata dai
centri minori, che approfittarono di un guerra fra quel casato e i Visconti di
Milano, per cui Treviso ritornò a far parte della Repubblica di Venezia, e
questa volta in modo duraturo.
La restituzione dei Castelli di Mussa e Mussetta fu legalizzata
dalla pace firmata a Pisa nel 1389.
Dopo quest'epoca, all’alba del secolo XV queste terre furono nuovamente poste
a dura prova da inondazioni, carestia, fame e peste, che decimarono la popolazione
e costrinsero molti lavoratori della terra ad emigrare.
Ricordiamo in particolare una carestia dovuta a una cattiva annata
agricola nel 1390, e chiudiamo in bellezza
con una pestilenza nel 1400,
probabilmente diffusa dai pellegrini che si recavano a Roma per il Giubileo.
Nel 1403 una rotta del Piave a Noventa provocava danni.
Una ducale del marzo 1409 del doge Michele Steno ordina agli abitanti rivieraschi,
da Negrisia a Mussetta,
di accelerare la riparazione degli argini a cui son tenuti.
Di qualche mese dopo (9 settembre 1409) è un decreto del
podestà di Treviso che obbligava le Ville lungo le sponde del Piave di
provvedere a riparare o costruire solidi argini per scongiurare gli
straripamenti esimendoli dai gravami fiscali.
[P. Davide: Abbazia di Monastier, pag. 70]
La situazione lungo il Piave era disastrosa. Ma a chi toccava effettivamente aggiustare e riparare?
Nel 1410 la Repubblica decretò il censimento dei beni presenti nel territorio
di San Donà e l'accertamento
dei titoli di proprietà dei confinanti per appurare eventuali appropriazioni indebite.
Il Basso Piave doveva mostrare un volto ben misero: boschi, prati e pochi
terreni arativi emergevano, come isole, da
un'immensa palude in continua espansione per le frequenti alluvioni del Piave.
La pessima situazione ambientale
rendeva l'area del tutto insalubre regnandovi sovrana la malaria. Il dominio del morbo
era incontrastato non essendo nemmeno classificato
tra le malattie; in quanto se ne ignoravano le cause, salvo un'intuizione
sul mal aere tipico dell'ambiente palustre.
Di conseguenza non vi erano rimedi atti a combatterlo.
Come se non bastasse, a rendere più desolato il territorio
ci pensarono le truppe
di Sigismondo di Boemia, in guerra con Venezia, che in pochi mesi
di occupazione (autunno 1412 - primavera 1413)
si resero protagoniste di ogni sorta di atrocità, lasciando la zona nel più completo squallore:
nel 1414 Mussetta era spopolata e Cittanova era ridotta a «de 5 in 6 vechi che solo erano rimasti in Villa»
La popolazione, abbandonata Mussetta,
si era insediata lungo i confini del territorio della Serenissima, presso l'attuale San Donà di Piave,
ponendosi sotto la protezione della Repubblica di Venezia.
Con la fine della guerra tra la Serenissima e il Regno d'Ungheria, la Repubblica incentivò lo sviluppo del territorio
offrendo esenzioni fiscali agli agricoltori disposti a trasferirsi. Venezia, infatti, era direttamente interessata
alla ripresa economica dell'area di San Donà, in quanto gran parte della superficie comunale era di proprietà demaniale.
Del 1419 è una nuova inondazione del Piave.
Effettuato il censimento dei beni demaniali, la Serenissima destinò un gastaldo a gestirli. Al Gastaldo fu anche affidata
la direzione della vita pubblica di «quelli lioghi», ovvero la gestione del territorio
di SS. Donati et Hermelii de Plavi, e gli fu fatto obbligo di abitare nella casa dominicale costruita vicino
alla riva del Piave nel punto di miglior approdo.
[Sanudo]
Il gastaldo era alla direzione degli affari locali. A lui erano affidate le facoltà
di permettere agli abitanti l'apertura delle osterie o bettole, panifici,
macellerie, casolerie e officine per costruzioni di natanti e di dar esecuzione
alle disposizioni della repubblica e di aprire approdi di barche. Più tardi sorsero
i massari, cioè i capi delle famiglie a cui erano affidati i lavori delle terre
e la custodia dei boschi: questi assumevano collettivamente la manutenzione
degli arginelli dei canali attraversanti il territorio per difendere le terre
dagli allagamenti. Vi era poi il prete che si occupava delle pratiche religiose
e che faceva da intermediario fra massari e gastaldo per la tranquillità dei terrazzani.
[Plateo]
Il Gastaldo ebbe infine il compito di controllare il taglio dei boschi di Grassaga che allora costituiva
una delle maggiori fonti di approvigionamento di legna da ardere della città lagunare.
[Cornaro, Scritture sulla laguna, 1935]
Nel 1425/27 ci fu un'epidemia di peste.
Verso il 1430 quando le tracce della desolazione erano scomparse e tornò
a sorridere l’idea di utilizzare le terre preservate dalle acque e i boschi annosi,
la repubblica tornò ad interessarsi dei beni del dogado, ne fece allestire
analogo catastico, fece ricostruire la casa domenicale residenza del
gastaldo ducale, e si ebbe così la prima forma rudimentale di governo locale. Il gastaldo
era alla direzione degli affari locali. A lui erano affidate le facoltà di
permettere agli abitanti l’apertura delle osterie o bettole, panifici,
macellerie, casolerie e officine per costruzioni di natanti e di
dar esecuzione alle disposizioni della repubblica e di aprire approdi di barche.
Più tardi sorsero i massari, cioè i capi delle famiglie a cui erano affidati i lavori
delle terre e la custodia dei boschi: questi assumevano collettivamente la manutenzione
degli arginelli dei canali attraversanti il territorio per difendere le terre dagli
allagamenti. Vi era poi il prete che si occupava delle pratiche religiose e
che faceva da intermediario fra massari e gastaldo per la tranquillità dei terrazzani.
Nel 1431 un'epidemia di colera. Alla fine dell'anno, l'inverno eccezionalmente
rigido provocò mortalità di uomini e di animali.
Nel 1437 l'appalto del taglio dei boschi di cui sopra e del trasporto della legna a Venezia fu assegnato
a Cristoforo Liberale che si impegnò a elevare da 1000 a 2000 passa il quantitativo di legna da vendere annualmente
in città, a condizione di non avere penalità in caso di siccità o di gelo tali da impedire il trasporto fluviale
e di migliorare la navigazione dei canali d'accesso.
[Bellis, Annali opitergini, 1960]
1438: ancora peste.
A tal fine nel 1440 furono iniziati i lavori di sistemazione di un tratto del Canal d'Arco,
lavori che, per fortunose vicende di appalti e appaltatori,
si sarebbero protratti molto in lungo, per un secolo.
Sempre in quel 1440 papa Eugenio IV Condulmer, veneziano, soppresse la Diocesi di Cittanova poiché la località
si era spopolata e il territorio della diocesi era divenuto una landa malsana, sicché da quasi
un secolo i vescovi non vi abitavano più,
benché venissero scelti in prevalenza fra religiosi apparteneneti a ordini monastici,
e quindi temprati
a una vita di sacrifici. Eugenio IV nel sopprimere la diocesi trasferì il territorio
con ogni proprietà, diritto e privilegio,
ai patriarchi di Grado. Ma nel 1451 papa Nicolò V Parentucelli avrebbe soppresso
quell'antichissimo patriarcato per lo stesso motivo,
e trasferito tutto al nuovo vescovo di Castello, cui avrebbe trasmesso anche il titolo di Patriarca (di Venezia).
Ma intanto l'anno prima, nel 1450, c'era stata una nuova alluvione del Piave. Era il caso
di mettere mano a argini e protezioni.
Per garantire la salvaguardia del territorio la Repubblica pensò bene
di dare in affitto quei (questi!) territori a dei privati.
1450: affitto della Gastaldia di San Donà
da parte di Francesco Marcello e Angelo Trevisan
Nel
1450 la grande proprietà demaniale di San Donà fu affittata
a un nobile veneziano: Domenico Trevisan; il gastaldo ducale in loco
cessò pertanto dall'essere l'amministratore fondiario, ma restò in loco
conservando le funzioni amministrativo-giudiziarie pubbliche e assumendo
il compito di sorvegliante dei boschi e
di controllore dell'adempimento delle norme e dei patti di fittanza.
[Archivio Storico di Venezia, Provveditori sopra feudi b. C-IV]
Nel 1451 ci fu un terremoto, ma erano poche le cose che potevano crollare.
Altro terremoto ci fu nel 1465, e nel 1467 un'alluvione della Piave.
Si vende
Il 27 luglio 1468 il Senato della Repubblica Veneta deliberò e ordinò
ai Tre Savi, deputati a ricuperare denaro per la Repubblica che si trovava in difficoltà
economiche a causa delle guerre di difesa dei propri territori, di vendere alcuni possedimenti
in terraferma: fu stabilito di cedere l’intero possesso in enfiteusi per un canone non minore
di D.ti 300 e il 9 agosto 1468 si confermò tale deliberato portando a Ducati 800 il canone livellario.
Il possesso aveva, oltre alla casa domenicale con pozzo, forno, orto e cantina,
anche una chiesuola e varie case di contadini. I confini si dovevano stabilire dai
signori delle «Rason vecce» fra il fiume Piave, i canali Grassaga e Ramo e la terra
delle mussette. La descrizione dei beni era depositata alla podesteria di Oderzo e
l’estensione si calcolava in campi 5000. La residenza del gastaldo o casa domenicale
era stabilita presso il fiume Piave sulla sinistra, dove vi era il maggior passaggio
delle barche, cioè la via maggiore del traffico fluviale.
Il dominio utile doveva aver principio col 1° marzo 1472.
die XXVI maj
Non data in [?] per diu rettenta
El fo prexo ali zorni passati in questo Conseio (Senato),
et commesso ai tre Sauui, deputati al
recuperar danari, che dovessero intender tuti li beni de la Signoria nostra, existenti neli territorii nostri da
parte da terra (di terra ferma), et minutamente informarsi de la condition et
qualità de quelli (beni), azo che parendo a questo Conseio et constrenzendone
cussì el bisogno el se potesse deliberar la vendition soa. Et, chome ognun
intende, se mai el fu necessario recuperar grande summa de danari et presto per
li besogni nostri, le (così è) al presente, chome ognun intende.
Perunde,
attrovandose nel territorio nostro trivisano el livello de ducati 840 de la
Gastaldia de Sandone (San Donà), et la Gastaldia de Santa + (Croce), item
nel territorio de Padoa si trova el Lago de
Guidizuol, cum algune valle che sono del fu Thadio Marchexe, messe ne la
Signoria nostra, per parte del credito che havea la signoria nostra prefacta
cum dito Thadio Marchese; preterea nel territorio de Este et padoana alguni
livelli, feudi et altri beni sono del marchexe de Ferrara. De li qual tuti si
potrà haver per vendition bona summa de danari.
Et
però (perciò) sia preso (deliberato) chel predeto livello de Sandone et
Gastaldia de Sancta + , Lago de Guidizuol cum predicte valle, item tuti i
livelli, e feudi predicti, et altri beni predicti siano messi al publico
incanto et per tre zorni incantadi cadaun de quelli. Et poi delivradi
(consegnati) a chi più offerirà , cum quello più avantazo de la Signoria nostra
che far se potrà. Ma avanti che per i prefati Savi se vegni ala delivration de
algun de quelli, debiano vegnir ala presentia de la Signoria nostra et a quella
per zornata (giorno per giorno) dichiararli el prexio li serà sta offerto.
Et poi, parendo cussì ala prefata Signoria e Collegio, Quelli et
cadaun de quelli delivrar insieme et divisim a parte a parte, chome al Collegio
parerà delivrar possi ali più offerenti ut supra. I denari del tracto (del
ricavato) diquali non se possi spender in alguna cossa, senza licentia de
questo Conseio.
De parte _____ 152 [Voti per il sì]
De non ______ 10 [Voti per il no]
Nonsint ______ 7 [Astenuti]
|
Il 19 dicembre 1468 si aggiudicò l'asta Giovanni Gradenigo, nobile veneziano,
per il canone annuo di 854 ducati, ma la sua morte,
avvenuta prima della stipulzaione del contratto, rese necessaria una nuova asta.
Nel 1470 la Piave, rotto l'argine a Romanziol, dilagò sradicando vigneti e abbattento più abitazioni.
Nel 1473 i terreni di
qua e di là del Piave verso la sua foce (e quindi anche la Gastaldia di "San Donato posta sopra la Piave")
furono di nuovi posti in vendita dai Deputati “sopra la recuperation del danaro”,
cioè all’incanto.
In questa seconda asta, nessuno però riuscì a
comprare tutto; le varie parti furono allora divise: il 2 settembre 1475 fu
affittata la sola Gastaldia di S. Donà e risultarono deliberatari i cognati Francesco
Marcello e Angelo Trevisan per D.ti 800, pagabili metà a Natale
e metà a Pasqua col dominio utile immediato.
Le condizioni del livello risultano da una serie di atti che formano un fascicolo di 86 pagine
col relativo indice, depositato nell'Archivio di Stato di Venezia
col titolo Statuta Sancti Donati de Anasso, Classis V, Codex C. (notiamo
che - andati distrutti chiesa e il castello di S. Ermilio - il luogo aveva assunto
il nome di Sancti Donati de Anasso, nome che nel secolo successivo sarà
corretto con quello di Santi Donati de Plavis)
e si possono così riassumere.
Esenzione da dazi per tutti i generi e bestiami per conto della gastaldia
e su tutti i prodotti della medesima portati a Venezia e nel territorio di Treviso;
esenzione delle tasse di «ripatico» o approdo e fermata delle barche,
unico mezzo di trasporto; esenzione da tutti i pesi pubblici meno il quartese. Facoltà di aprire,
con privilegio dell'esclusività, osterie, forni, macellerie, spacci di carne salate,
officine di fabbro, di costruire barche, di istituir approdi in qualsiasi punto della gastaldia
e di scavar pozzi e fiumi senza danno altrui; di eleggere un prete per la messa,
di conseguire l’iuspatronato della chiesa che fosse costruita col permesso del Papa,
di tenere uno scrivano o un Vicario con lo stipendio fissato dal governo della Repubblica,
con giurisdizione civile e penale, di tener donne nella possessione, di lavorare le terre a piacimento.
Obbligo di pagare il canone sotto pena di caducità dal livello dopo un biennio di tolleranza,
di offrire valida garanzia; di ottenere l’approvazione del contratto; di ricevere la misurazione e
confinazione dal magistrato delle Rason vecce. Divieto di alienar terre, di dissodar boschi e
particolarmente quello grande (Chiesanuova).
Occorre costruire una chiesa
Poiché nessuna proprietà può considerarsi in ordine se non è dotata di una chiesa
degna di tale nome nella quale gli abitanti
della Castaldia possano compiere i loro uffici religiosi, i nuovi affittuari chiesero al doge Vendramin,
che trasferì la richiesta al papa, di costruire una chiesa.
La bolla di Sisto IV che concede ai nobili Trevisan e Marcello di ricostruire la chiesa in San Donà
Originale |
Traduzione di Carlo Dariol |
1476 feb. 6 |
6 febbraio 1476 |
|
Sixtus episcopus servus servorum Dei.
Dilectis filiis Francisco Marcello et Melchiori ac Angelo Trivisano, nobilibus Venetiarum, salutem et apostolicam benedictionem |
Sisto vescovo, servo dei servi di Dio.
Ai diletti figli Francesco Marcello e Melchiorre e Angelo Trevisan, nobili delle Venezia, salute e apostolica benedizione. |
Sisto IV, Francesco della Rovere, papa dal 1471 al 1484.
Servus servorum Dei: formula inventata da Gregorio I Magno (590-604) per indicare il Papa |
Sincere devotionis affectus quem ad nos et romanam Ecclesiam gerere comprobamini
merito nos inducunt, ut vobis vestris illis presertim que ex devotionis fervore procedere conspicimus,
quantum cum Deo possumus favorabiliter annuamus. |
L’affetto di devozione sincera che siete stati riconosciuti di portare con merito a Noi e alla Chiesa Romana,
ci inducono, poiché vediamo che tali cose procedono soprattutto dal fervore della devozione, a concedere con favore
quanto per mezzo di Dio è in nostro potere. |
Sane pro parte vestra nobis nuper exhibita petitio continebat, quod in certis tenimentis seu iurisdictionibus ac possessionibus dudum ut creditur cultivatis nuper vero buschivis et communis castaldiis Sancti Donati de Piave nuncupatis (= dichiarate) in Tarvisina seu Cenetensis diocesis consistentibus (= facenti parte), per dilectum filium nobilem virum Andream Vendramino ducem Venetiarum, ad quem castaldie huiusmodi spectabant, vobis ad livellum seu perpetuum emphiteusim concessit vestigia dumtaxat (= soltanto) multarum ecclesiarum…… et aliis sinistris eausantibus eventibus penitus (= all’interno) collapsarum reperiuntur, quibus seu illarum alicui habitatores dictarum castaldiarum certam partem quartesima nuncupat extractibus et bonis escrescentibus in dictis castaldiis et alia parochialia iura, ut verisimiliter creditur dare consueverunt,
sed distructis ecclesiis predictis habitatores prefati carentes administrationibus ecclesiasticorum sacramentorum ad parochialem ecclesiam Sancti Mauri de Noventa, dicte tarvisine diocesis tamquam propinquiorem et eis commodiorem habuerunt recursum, et illius rectori quartesimam partem iamdiu dederunt, prout (= secondo che, in quanto) dant de presenti; |
Opportunamente la petizione da parte vostra a noi esibita recentemente riferiva che in certi tenimenti,
ossia giurisdizioni e possedimenti un tempo ritenuti a coltivo, ma recentemente in verità lasciati a bosco
e comuni alle castaldie di San Donà di Piave, dichiarate far parte della diocesi di Treviso ovvero di Ceneda,
(per mezzo de) il diletto figlio nobil homo Andrea Vendramin, Doge delle Venezie, al quale spettavano le castaldie di questo tipo, a voi concesse a livello ossia in enfiteusi perpetua soltanto le vestigia di molte chiese [che a causa di… o ] per altri eventi disastrosi dovessero trovarsi crollate all’interno di tali territori;
ad esse, o a qualcuna di quelle, egli dichiara che gli abitanti di quelle castaldie erano soliti corrispondere
il quartese tra quanto si ricava e tra i beni che crescono nelle dette castaldie e, come verosimilmente si crede, anche gli altri obblighi parrocchiali;
ma andate distrutte le predette chiese, i predetti abitanti, considerandosi privi di amministratori dei sacramenti ecclesiastici,
avrebbero fatto ricorso alla chiesa parrocchiale di San Mauro di Noventa, della detta diocesi tarvisina,
in quanto più vicina e più comoda per loro, e al rettore di quella già da un pezzo danno il quartese |
- La castaldia in epoca medievale era una proprietà amministrata da un funzionario (castaldo) per conto del re; qui è da intendersi per conto del vescovo alla cui diocesi la castaldia appartiene.
- La diocesi di Ceneda è l'attuale diocesi di Vittorio Veneto.
- Andrea Vendramin (1476 -1478) LXXI Doge delle Venezie. Personaggio umile ed umano, discendente da una delle famiglie “nuove”, quando il suo nome iniziò a prendere corpo nelle votazioni della Quarantia il notaio, più propenso all’elezione di un esponente d’un casato aristocratico tentò un broglio elettorale a favore di Benedetto Venier, ma la cosa non passò inosservata e le schede furono annullate. Andrea Vendramin fu eletto col minimo del quorum all’età di 83 anni senza aver fatto altro nella vita che esercitare il commercio; quando salì al soglio i suoi capitali erano stimati intorno ai 160.000 ducati d’oro. Durante il giro in "pozzetto" il neo doge non distribuì monete d’argento ma d’oro e durante il suo breve dogado fu prodigo e munifico con tutti i bisognosi e magnanimo nel somministrare la giustizia, tanto da meritarsi un riconoscimento ufficiale da papa Sisto IV che, per la sua bontà d’animo gli conferì la “rosa d’oro”, e che egli depositò nel tesoro di San Marco.
Sul fronte turco però le cose non gli andarono bene: nel giro di poco tempo furono perse Tana e Soldaia, quindi Genova perse Caffa facendo saltare così tutto il commercio nel Mar Nero.
Andrea Vendramin morì il 6 maggio 1478, all’età di 85 anni, e fu sepolto nella chiesa dei Servi; nel 1815 il monumento con le sue spoglie fu traslato a SS. Giovanni e Paolo).
- Ad livellum= a livello (dal lat. libellum = libretto sul quale era trascritto il contratto relativo): anticamente era un contratto simile all’enfiteusi.
- Enfiteusi (dal gr. emphyteusis, da emphytéuein = piantare dentro): diritto di godere un fondo altrui con l’obbligo di apportarvi migliorie e di corrispondere periodicamente un canone in denaro o in natura |
et quod iux[…] predictus castaldias predictas in perpetuum emphiteusim ut ille [= illae] ad debitum culturam reducerentur vobis concessit, ut premittitur, quodque vos pro reductione dictarum castaldiarum quatuormillia ducatorum, vel circa, iam exposuistis, et habitatores in dictis castaldiis sunt quamplurimi et colloni seu laboratores earum qui, cum ecclesiam non habuerint ad quam se commodi pro divinis andiendis conferre valeant, propter distantiam ecclesie predicte de Noventa, que ad aliquibus ip(s)arum castaldiarum sex miliaribus a propinquioribus vero duobus miliaribus vel circa distant, habitatores ipsi sepe missas et alia divina officia minime audire possunt quinimo quod deterius est aliqua confessione et aliis ecclesiasticis sacramentiis, aliquando ipsos decedere contingit in opprobium catholice fidei, animarumque suarum periculum et plurimonun scandahun non modicum.
|
e poiché [secondo … il Doge predetto] vi concesse le gastaldie predette in enfiteusi perpetua
affinché quelle (chiese) vengano restituite al culto, come si premette, e poiché voi per la ristrutturazione
di dette gastaldie avete già speso 4000 ducati, più o meno, e gli abitanti delle dette gastaldie,
tra coloni e lavoratori, sono alquanto numerosi, e, non avendo una chiesa nella quale riescano con agio a riunirsi per le pratiche del culto, a causa della distanza della predetta chiesa di Noventa, che da qualcuna delle dette gastaldie dista anche sei miglia e dalle più vicine non meno di due miglia, gli stessi abitanti spesso non possono neanche ascoltare le messe e gli altri uffici divini e, ciò che è peggio, neanche pender parte alla confessione e agli altri sacramenti ecclesiastici qualora gli capiti di cadere in obbrobrio della fede cattolica, in pericolo dello loro anime, con non piccolo scandalo dei più. |
Et sicut eadem petitio subiungebat, si unam ex predictis ecclesiis in dictis castaldiis consistentibus collapsis reedificandi aut aliam in commodiori et magis concedenti loco subvocabulo beate Marie Gratiarum in eisdem castaldiis seu territorio Sancti Petri Casacalta in corpore ipsarum castaldiarum esistente, de novo edificandi licentiam concederetur et ad illas postquam erecta esset, iuspatronatus et presentandi personam idoneam quotiescumque illa pro tempore vacare contigerit, vobis et heredibus ac successoribus vestris masculis reservaretur ecclesiam collapsam predictam cum domo pro illius rectore competenti reedificaretis seu aliam cum dicta domo sumptibus propriis de novo edificaretis illique de missali, calice, et paramentis necessariis provideretis,
nec non (= e anche) quadragesimam partem omnium et singulorum fructuum in dictis castaldiis escrescentium pro dote ipsius ecclesie, et illus [= illius] rectoris, pro tempore existentis, qui ecclesiastica sacramenta incolis et habitatoribus predictis ministrare haberet competenti sustentatione. |
E poiché la stessa petizione soggiungeva, nel caso si dovesse riedificare una delle predette chiese
che si trovasse crollata nelle dette gastaldie o costruirne un’altra in luogo più comodo e favorevole,
che venisse concessa licenza di edificarla ex-novo intitolandola alla Beata Maria delle Grazie, all’interno delle stesse gastaldie ossia nel territorio di San Pietro Casacalta sempre nel territorio delle stesse gastaldie; e una volta che fosse stata eretta, a quelle (cioè alle gastaldie) tocchi il giuspatronato e anche il compito di fornire una persona idonea tutte le volte che a quella (la chiesa) capiti di essere temporaneamente vacante, a voi e ai vostri eredi e successori maschi sia riservato che ricostruiate la predetta chiesa crollata con annesso un edificio per il rettore responsabile di quella, oppure che ne edifichiate ex novo un’altra con la detta casa e le pertinenze proprie e la forniate di messale, calice e paramenti necessari, ed anche che quella abbia, come necessario sostentamento, la quarantesima parte di ogni cosa e di ogni frutto che cresca in dette gastaldie come dote per la stessa chiesa e per il suo rettore, il quale si trovi ad amministrare pro tempore i sacramenti ecclesiastici agli abitanti e agli affittuari nominati, |
Ita tamen quod habitatores predicti ecclesie de Noventa… aliquid de cetero dare aut solvere prout non consueverant, minime tenerentur cum ipsius ecclesie de Noventa rectores pro tempore existentes ex illius fructibus qui valorem centum viginti quinque florenorum auri de camera commune extimatione excedunt se comode sustentare possunt, perpetuis futuris temporibus dare et consegnare promitterebis et ad hoc facie... |
Poiché tuttavia gli abitanti della predetta chiesa di Noventa… non erano soliti dare o pagare qualcosa d’altro, minimamente saranno tenuti dal momento che i rettori della stessa chiesa di Noventa esistenti pro tempore si possono sostentare di quei frutti che eccedono nella stima il valore di 125 fiorino d’oro di camera comune, voi prometterete di dare e consegnare per i tempi perpetui futuri e a questo scopo… |
… Vos et possessiones predictas idonea cautione obligaretis et ultra predicta pro dicte dottis augumentos duos campos terre et ducatos centum auri de camera imprestitorum venetorum donaretis, quo ad dictorum habitantium maxime commodum et eorum animarum salutem ac ecclesiarum et divini cultus augumentum rederet. |
… voi da un lato obblighereste le predette possessioni con idonea cauzione, dall’altro, oltre quanto detto, ad accrescere la detta dote, donereste due campi di terre e cento ducati d’oro della camera dei prestiti veneti, affinché torni di comodo massimamente ai detti abitanti, di salvezza alle loro anime e di accrescimento del culto divino. |
Quare pro parte ducis prefati et vestrorum nobis fuit hmniliter supplicatum, ut vobis unam ex collapsis ecclesiis reedificandi seu illam de novo fundandi et edificandi licentiam condecere, nec non (= e anche) iuspatronatus et presentandi personam idoneam ad illam, ut premittitur vestrisque heredibus et successoribus predictis reservare, aliasque in premissis opportune providere de benignitate apostolica dignaremur. |
Per tale ragione, essendoci stato umilmente supplicato da parte del Doge sunnominato e da parte vostra di concedervi licenza di ricostruire una delle chiese crollate sia di fondarne ed edificarne una nuova, anche troveremmo conveniente riservare, come premesso, ai vostri eredi e predetti successori il giuspatronato e il compito di fornire una persona idonea per quella e di provvedere opportunamente le altre cose secondo benignità apostolica |
Nos igitur huiusmodi supplicationibus inclinati, si est ita, dictam ecclesiam reedificandi seu aliam de novo in commodiori et magis concedenti loco predicto pro ut vobis melius videbitur, sub dicto vocabulo de novo fundandi seu edifieandi ac, ut premittitur, dotandi, vobis licentiam elargimus, et nihilominus (= nondimeno) vobis heredibus et successoribus vestris masculis, postquam dictam ecclesiam cllapsam (= collapsam) sumptibus propriis cum domo predicta reedificaretis, seu aliam de novo fundaveritis et redificaveritis ac illi de missali, calice, et paramentis necessariis, ut premittitur, provideretis, nec non modo premisso dotaveritis, et feceritis iuspatronatus et facultatem presentandi personam idoneam ad illam tam primaria vice (= posto), quam alias quotiescumque pro tempore vacaverit, auctoritate apostolica tenore presentium concedimus pariter, et reservamus. |
Noi perciò, mossi dalle suppliche di questo genere, stando così le cose vi concediamo la licenza di riedificare la detta chiesa oppure di riedificarne un’altra di sana pianta nel predetto luogo più comodo e favorevole, dove a voi sembri meglio, di fondarne una nuova con l’intitolazione suddetta, di tirarla su e di dotarla come premesso, e nondimeno col tenore dell’autorità apostolica del pari concediamo e riserviamo ai vostri eredi e successori maschi dopo che abbiate ricostruito la detta chiesa crollata con le sue pertinenze o che ne abbiate rifondato un’altra di sana pianta e tirata su, che la dotiate di messale, calice e paramenti necessari, come premesso, e che anche, nel modo detto, ne abbiate il giuspatronato e la facoltà di fornire la persona idonea a quel posto primario quanto le altre cose tutte le volte sia per qualche tempo vacante. |
Non obstantibus consultibus et ordinationibus apostolicis ceterisque contrariis quibuscumque nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostre elargitionis concessionis et reservationis infringere vel ausu temerario contrahire, si quis autem hoc attentare presumpserit, indignationem omnipotentis Dei ac beatorum Petri et Pauli apostolorum Eius se noverit incursurum. |
Non contrastando […] perciò a nessuno sia lecito infrangere questa pagina di concessione della nostra elargizione o contraddire con fare temerario; se qualcuno tuttavia presuma di attentare a questo, si consideri incorso nell’indignazione di Dio onnipotente e dei Suoi beati apostoli Pietro e Paolo. |
Datum Roma apud Sanctum Petrum, anno incarnationis Dominice millesimo quadringen-tesimo septuagesimo sexto, oetavo idus februarii. Pontificatus nostri anno sexto anno. |
Dato a Roma presso San Pietro nell’Anno dell’Incarnazione del Signore 1476, l’ottavo giorno di febbraio. Anno sesto del nostro pontificato. |
Primo vicario
Il passaggio della Gastaldia da proprietà demaniale a possesso privato modificò l'assetto amministrativo
della località. Dopo l'aggiudicazione dell'enfiteusi i pubblici poteri furono affidati dalla Repubblica
a un funzionario (il Vicario Ducale) nominato dal Doge, anche se su proposta del livellario (e in seguito, del proprietario).
Il Vicario doveva prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica e aveva l'obbligo di risiedere a San Donà.
Tuttavia il capoluogo della gastaldia rimaneva lo stesso, quello cioè della casa domenicale
nella quale fu insediato il Vicario.
Il primo Vicario di S. Donà, che sostituì il gastaldo,
fu ser Antonio Luppo, nominato nel 1476 dal doge Pietro Mocenigo, dal quale veniva
onorato del titolo di Venerando, nel decreto di nomina.
Ci furono negli anni 1475/77 passaggi di nuvole di cavallette che "quasi oscuravino il sole"
e che determinarono una grave carestia. Ce ne sarebbe voluta di fatica a mettere
in sesto questi territori.
Contro gli usurai
Accadde a S. Donà ciò che si era verificato altrove e che sempre si è verificato nella storia:
le cupidigie umane si erano affinate; la forza bruta, le violenze, le rapine,
avevano ceduto il posto alla ragione simulata, così come all’alba della storia
era accaduto che alla violenza longobarda fosse succeduta l’astuzia bizantina,
le due tendenze fatali a Eraclea, a Iesolo, a Cittanova, a Fines.
Si erano diffusi gli usurai che davano a prestito denaro contro pegno d'immobili,
ma con un interesse a crescere, per cui in breve tempo coloro che avevano
abboccato all’amo venivano espropriati e immiseriti. Il Consiglio dei X con
suo
decreto 12 marzo 1478, considerando che i prestiti col pegno d'immobili,
per l'esagerato interesse convenuto, si traducevano in un trasferimento
di beni pagati a prezzo irrisorio, invitava tutte le autorità a punire
e denunciare per la punizione gl'ingordi speculatori, ritenendo illegali gli atti relativi.
Diritti degli affittuari, obblighi del Vicario
Intanto erano stati disciplinati e ratificati i diritti
dei livellari con le ducali 22 aprile e 27 novembre 1476,
e di nuovo con quelle del 27 novembre 1479
e gennaio del detto anno (che - ricordiamo - terminava a marzo),
nonché 1° agosto 1480, che stabilivano la bolletta di transito per conseguire l’esenzione
accordata alla gastaldia sulle piazze di Venezia, Treviso e Oderzo; la competenza del Vicario,
il diritto di pagarsi all’estensore della bolletta, il dovere di denunciare i reati e le frodi
al governo della Repubblica senza spesa, e il divieto di far godere le franchigie
della gastaldia alle terre vicine «quod dita vila sit regula titulada per se
et non suposita alieni plebi nec cum aliqua villa teneatur facere nec contribuere
alicua razione vel causa».
Veniva poi offerto il livello di S. Croce di 80 campi agli stessi Marcello e Trevisan
per l’annuo canone di L. 32 ma senza privilegi e esenzione dai dazi.
Poco dopo dai Signori delle Rason vecce fu ordinato che i beni della gastaldia
venissero intestati per metà a Marcello e per l’altra metà a Trevisan
in seguito a divisione fra essi stipulata.
[Biblioteca Nazionale Marciana, codice latino cl. V, cod. C (2792)]
L'atto è fondamentale poiché secondo la legislazione allora vigente,
l'emissione di certificati di franchigia sull'importazione
o esportazione di merci da una località all'altra spettava a chi vi esercitava una giurisdizione
territoriale civile e penale, veste che il Vicario di San Donà assunse in quel 1479.
In quel 1479, dicevamo, furono precisate
le funzioni del vicario, per cui si può datare da quell'anno
la nascita di una Amministrazione locale in San Donà di Piave.
Le sue funzioni e i suoi poteri furono ulteriormente dettagliate negli anni successivi.
Le varie nuove disposizioni si resero necessarie per favorire il ripopolarsi della villa di S. Donà.
Talune di queste meritano d’essere ricordate perché rispecchiano nettamente le condizioni
di questi luoghi a quei tempi.
Il Vicario ducale, succeduto al gastaldo, era un giudice
di pace popolare con attribuzioni limitate, che veniva nominato dal doge sopra proposta
dei livellari o proprietari del possesso conosciuto sotto il nome di gastaldia. Doveva quindi
prestare giuramento di fedeltà al governo della repubblica. Questo magistrato locale
era investito delle facoltà:
a) di giudicare in civile e in penale fino all’importo
o alla pena di L. 10, riservato alle parti che si credessero lese dal suo giudizio,
di appellarsi al Podestà di Oderzo, per la parte degli abitanti al di là del Grassaga
e sulla sinistra del Piave, e al Podestà di Torcello per quelli sulla destra,
dalla «Fossa» alla Torre del Calligo;
b) di elevare contravvenzioni per infrazioni
alla privativa del sale fino a L. 10 con l’obbligo di riferire ai Podestà di Oderzo
e Torcello per i casi di contravvenzioni punite con pena maggiore;
c) di giudicare le frodi daziarie punibili con pena non maggiore di L. 10,
obbligato a riferire alle competenti autorità per frodi importanti pene superiori;
d) di rilasciare dichiarazioni di identificazione dei prodotti della gastaldia
per il transito in esenzione da dazio sulle piazze di Venezia, Treviso e Oderzo.
[Ducale 26 novembre 1476; ordinanza dei XII sapienti per i dazi,
26 Agosto 1480; Ducali 26 giugno 1883, 1 marzo 1495, 26 novembre 1496, 7 settembre 1497]
Consacrazione del nuovo tempio
La consacrazione del nuovo tempio dedicato a Santa Maria delle Grazie
fu celebrata nel luglio del 1480 dal vescovo di Treviso
fra Giovanni IV Zaneto (o Saona?) da Udine, dell'ordine dei Minori di San Francesco.
Il 22 agosto
dello stesso anno il Doge Giovanni Mocenigo (successore del Vendramin)
(sentito il Consiglio dei Dieci) concesse l'investitura al suo primo rettore:
don Pietro da Drivasto.
[Treviso, Archivio vescovile, b. San Donà]
E come già la bolla di Sisto IV lasciava intuire, il placet dogale stabilì
l'immediato trasferimento alla chiesa di
Santa Maria delle Grazie del quartese della Gastaldia sino ad allora incamerato
dalla Pieve di San Mauro di Noventa, ponendo fine alla vertenza
sollevata dal pievano di Noventa, don Lorenzo Gregolino, al fine di conservare le decime anche
dopo l'edificazione della nuova chiesa.
Oltre alla chiesa i livellari assegnarono il sagrato per i morti
e la casa canonica con relative adiacenze. Alla chiesa però mancavano varie decorazioni,
parte dei mobili e il campanile.
[Treviso, Archivio vescovile, b. San Donà]
Nuove necessità finanziarie dovute alla Guerra di Ferrara spinsero la Repubblica
a vendere definitivamente la Gastaldia ai livellari
Il 26 marzo 1483 dal Consiglio dei Dieci fu deliberata
la vendita dei beni mediante affranco.
Il giorno 16 giugno dello stesso anno Nicola Contarini ne acquistò
un terzo per D.ti 3050 per conto di Domenico Morosini,
il quale lasciò poi il terzo acquistato a disposizione di chi
acquistasse l’intera gastaldia al prezzo non inferiore di D.ti 10.000
(26 giugno 1483).
Si comprende benissimo che a Morosini premeva che la vendita fruttasse
alla cassa dello Stato non meno di D.ti 10.000, e per evitare che avidi
speculatori facessero offerte inferiori presentò quella di L. 3.500 per terzo.
I livellari Marcello e Trevisan, per ultimi, offrirono D.ti 10.000
e rimasero padroni della gastaldia per atto rogato dal notaio Tagliapietra.
(Intanto anche la gemella
Gastaldia di Croce, nuovamente posta all’asta il 26 maggio 1483,
era andata aggiudicata
e fu acquistata dai fratelli Francesco e Domenico Foscari
di Alvise il 13 agosto 1483, per ducati 5.610.)
È del 26 aprile 1485 una ducale al podestà di Oderzo in cui si ordina di fare accelerare i lavori di
riparazione di una rotta nell'argine della Piave, fra San Donà e Noventa, ricordando che a tale opera sono obbligati
anche gli abitanti di Salgareda e di Campodipietra oltre a quelli della Gastaldia di San Donà e di Romanziol, Lampol,
Sabionera e Noventa. [Biblioteca Nazionale Marciana, Statuta Sancti Donati].
Il paese si stava appena formando quando fu colpito dalla peste (1486/89) con una mortalità attorno al 30% della
popolazione; da un inverno talmente rigido da far gelare la laguna di Venezia e la Piave (1490)
e provocare un'alta mortalità fra gli uomini e e fra il bestiame; da un'epidemia di mal francese (sifilide)(1496),
contemporanea a una carestia in cui la gente non avendo più nulla da mangiare raccoglieva la gramigna,
la tagliava a pezzi, la faceva seccare nei forni "et poi fatala maxenar feve pan".
Secondo Vicario...
Il secondo Vicario della castaldia di San Donà fu ser Francesco Negro, non sappiamo in che anno, ma
sappiamo che fu nominato dal doge Agostino Barbarigo (il quale fu doge dal 1486 al 1501).
... e un prete abusivo
Dal 1495 (e fino al 1500) funzionò da curato abusivamente, senza nomina regolare,
Pre Alessandro da Portobuffolè, che fece cattiva prova. Il popolo però, malgrado
le qualità negative del curato acquistò due campane,
che collocò sopra apposita armatura, di legname, e procurò alcuni mobili.
Vennero quindi alla chiesa due legati di una vacca a soccida cadauno,
il primo per sopperire alle spese della festa del Corpus Domini,
istituita due secoli prima da Papa Urbano IV, e l’altro per illuminare
l’altare di S. Rocco, venerato come protettore del popolo
contro il rinnovarsi della peste, che troppo spesso aveva visitati questi luoghi.
Angelo Trevisan unico proprietario
Non sappiamo dunque se fu per occasione, per disperazione
o per investimento che il 29 novembre 1496 Angelo Trevisan, uno dei due acquirenti,
riscattò la metà della Gastaldia posseduta dal cognato Marcello, rimanendo così
padrone unico e assoluto dell'esteso podere.
E ampliò ulteriormente il suo possesso quando il 5 genare 1499
stipulò l'acquisto “dal patriarcha de Venezia per sé, eredi et successori, del luogo di Fossà sotto Torcello
con tutte le terre da formento, pradi e paludi tra questi confini da una parte una fossa ciamata Piveran,
da l'altra il canal chiamato Canale dele Fronte, da l'altra il fiume Grassaga
e da l'altra li luochi chiamati Gastaldia di San Donà, territorio trevisano, che prima tenevano li Trevisan a livello
et poi divennero possesori.”
[Archivio del Patriarcato di Venezia, b. B-XXV]
Questa proprietà costituiva una parte del patrimonio dei Vescovi di Cittanova e apparteneva da una cinquantina
d'anni ai patriarchi veneziani.
Sempre in quel 1499, il 3 aprile, il Trevisan effettuò un secondo ampliamento ottenendo
in enfiteusi, sempre dal Patriarca di Venezia, un'altra proprietà con pascoli e paludi corrisponedente alle attuali località
di Chiesanuova e Passarella.
Quelle località erano allora sulla sinistra del Piave e pur essendo beni provenienti dalla soppressa Diocesi di Cittanova,
dipendevano ecclesiasticamente dalla Diocesi di Treviso per via della rettifica dei confini fra le due diocesi avvenuta nel 1338.
Troviamo degli atti di riconoscimento del Trevisan per proprietario in data 28 giugno 1500,
coi privilegi accennati nel livello, e ricordando che i confini del possesso
erano depositati in atti dal Podestà di Oderzo, e delle notificazioni della repubblica
in data 28 novembre 1502 ai Podestà di Treviso, Oderzo e Torcello per l’esenzione da dazi.
Angelo Trevisan era quindi divenuto proprietario della quasi totalità
dell'attuale territorio comunale di San Donà.
Il Vicario ducale, che aveva inizialmente giurisdizione sulla
sola Gastaldia, con l'ampliamento dei possessi dei
Trevisan, finì per avere giurisdizione in pratica sull'intero territorio cittadino odierno, ad
eccezione di una porzione data in enfiteusi alla famiglia Moro dai patriarchi di Venezia.
[Biblioteca Nazionale Marciana, "Statuta Sancti Donati, ducali varie...]
Due non notizie su questo Angelo Trevisan...
Questo Angelo Trevisan apparteneva al patriziato per iscrizione del 1381 in ricompensa dei
servizi resi da suoi antenati nelle guerre contro i genovesi.
Nel 1398 Angelo Trevisan era capitano generale dell’armata veneta e danneggiò
le terre marittime di Romagna mostrandosi valoroso. Non discende però dal ramo che diede il doge Marcantonio,
avendo questo per capostipite Pietro Trevisan, mentre il suo ha per capostipite Paolo,
né alla famiglia di Angelo apparterrà il Patriarca Trevisan del 1575,
quello sotto il quale sarà istituita la festa del Redentore per implorare
l’aiuto del cielo contro l’infierir della peste, che cesserà nel 1577.