STORIA di SAN DONÀ
dal 1700 al 1796


Nuovo vescovo. Nel 1709 moriva il vescovo Giovanni Battista Sanudo e l'anno successivo gli subentrava Fortunato Morosini (sarebbe rimasto vescovo fino al 1723) Monaco benedettino, ovviamente veneziano, diede impulso alla costruzione del nuovo seminario deciso dal predecessore. Realizzò una visita pastorale ma non giunse a San Donà.

Un calmiere del 1713 elenca i generi alimentari venduti abitualmente: bacalà, cievoli saladi, bisati grossi e scavezzoni saladi, cospetoni, arenghe, fasioli, risi, sala di e sala di con l’aglio, persuto, formaio pegorin novo e vecio, lardo, soppressada, luganega bianca e vin nostrano Il calmiere era il listino con i prezzi imposti dalla Repubblica nella vendita delle derrate in modo da tutelare i consumatori contro sovrapprezzi arbitrari od ingiustificati decisi dai negozianti.
La sua osservanza era affidata in loco ai giustizieri (guardie comunali) a cui competeva pure il controllo del peso per evitare le frodi. Rileviamo che la Serenissima incentivava la collaborazione degli abitanti per segnalare frodi ed abusi assegnando al denunciante 1/3 dell’eventuale multa ed 1/3 alla guardia che l’aveva elevata. I giustizieri dovevano inoltre vigilare che i pistori (fornai) facessero il pane «salado, ben cotto et di buona farina» (essendo allora una frode frequente cuocere poco il pane affinché pesasse di più e prepararlo miscelando farine di qualità inferiore) e controllare che i becheri (macellai) non vendessero carni di una qualità al posto di un’altra, non imbrogliassero sui pesi e dessero nella giusta proporzione carne e ossa.
Tali misure erano particolarmente necessarie per evitare l’uso di applicare esosi sovrapprezzi alle merci vendute a credito agli agricoltori che di solito pagavano una volta l’anno, dopo il raccolto. Un altro abuso, invano contrastato, veniva da quei commercianti che concedevano anticipi sul prossimo raccolto per poi costringere i debitori ad accettare il prezzo da loro fissato. Spesso era lo stesso proprietario a concedere prestiti ai coloni, in modo che, indebitandoli in perpetuo, aveva modo di impedire che avanzassero richieste a cui non intendeva dar luogo: in particolare la manutenzione delle loro case.

1716: epidemia di colera.

1719: terremoto con epicentro Sacile.

Fu forse per farsi perdonare della mancata presenza in loco che il vescovo Morosini nel 1720 decise di elevare la curazia di Santa Maria delle Grazie a Pievania.

Nel 1723 il vescovo Morosini fu trasferito a Brescia. Memorabile era stato l’obbligo che aveva fatto ai cappellani di frequentare gli esercizi spirituali annuali.

Il 22 novembre di quell’anno fu eletto vescovo di Treviso Augusto Zacco, di famiglia padovana, ma patrizia veneta, già arcivescovo di Corfù in un periodo militarmente tormentato. Laureato in utroque iure a Padova si distingueva per la sua erudizione e pietà. Dolce d'animo, colto e operoso pastoralmente, era uomo mite e attento ai poveri e agli ammalati.

La giovane Pievania di San Donà nel 1725 ottenne il diritto di far uso delle insegne arcipretali esercitandone i privilegi relativi.

Il 5 settembre 1726 giungeva in visita pastorale a San Donà. Parroco era ancora don Sebastiano Siccardi.

La visita pastorale del 1726

Nel 1728, un decreto vescovile concesse il titolo di Arciprete al parroco, avendo espresso la Santa Sede il parere favorevole. Veramente il titolo fu concesso "ad personam" a don Sebastiano Sicardi, ma poi fu elargito ai suoi successori, sino al 1778, anno in cui fu attribuito "ad sedem" da un secondo decreto che fregiò la chiesa delle insegne arcipretali perpetue.
[Arc. vesc. b. San Donà]

Nel 1739 veniva a mancare anche il vescovo Zacco (o veniva messo a riposo, o trasferito: “ultimamente deffonto”, si leggerà nel 1745). Gli succedeva Benedetto De Luca, veneziano, trasferito in giugno a Treviso da Ceneda. Il quale sei anni dopo, venne in visita pastorale a San Donà.

Visita pastorale del 10 settembre 1745

Parroco era don Domenico Pizzolato

Nel 1746 nacque il Consortile di Scolo Grassaga e poco dopo (1750) si formarono il Consortio Zirgogno e il Consortio Piveran interessanti direttamente lo stesso centro urbano. La Serenissima non dava il minimo appoggio finanziario a tali iniziative, non vedendo di buon occhio la regolamentazione della acque sulla sinistra Piave, che si temeva potesse nuocere alla laguna veneziana.

In quel 1750 moriva il vescovo de Luca e a Treviso, da Chioggia, veniva trasferito Paolo Francesco Giustiniani, veneziano, cappuccino. Il quale, venne per la prima volta a San Donà in

Visita pastorale il 5 MAGGIO 1754

Parroco era don Domenico Pizzolato.

Nell’anno 1764 fu constatato il bisogno d’ingrandire il sagrato, essendo stata occupata interamente l’area destinata ai morti. Non fu però possibile un ampliamento per il fatto che la terra destinata a tale uso si trovava fra due strade interne, le attuali via Maggiore e via Calnova, la casa canonica e la proprietà Pesaro, nelle località oggi conosciute coi nomi Pescheria, Largo della chiesa e Foro boario. In quel tempo non era ancora stato introdotto il sistema delle esumazioni ultra decennali per far posto, e quindi si ricorse per la prima volta al rimedio di seppellire sopra i cadaveri di tre secoli prima.

L’ultima licenza di tumulazione sotto il pavimento della chiesa porta la data del 1766 e riguardò il seppellimento del pievano Pre Domenico Pizzolato. In questa licenza però si accenna al consenso dell’ufficio di Sanità di Treviso.

Uomo di enorme azione, il vescovo Giustiniani si adoperò in particolare per seminario, per la diffusione del catechismo, per l'abbellimento di chiese e luoghi sacri. Nel 1776 pubblicava il suo Catechismo.

Nel 1778 Paolo Francesco Giustiniani tornava a San Donà. Ma si precedere di qualche giorno da un dono non da poco: il 20 aprile 1778 la chiesa era insignita del titolo arcipretale perpetuo.

Visita pastorale del 26-27 aprile 1778

Parroco era don Giovanni Maria Bianchi.

Censimento del 1780

Il censimento ufficiale ci dice che S. Donà e Musile nel 1780 contavano 5038 abitanti, con 30 famiglie civili, tre preti con beneficio e otto senza, 33 questuanti, 30 negozianti, tre esercenti professioni libere, 6 barcaiuoli, 116 artigiani, 12 servitori, 12 armaiuoli, 1849 buoi da lavoro e 421 da macello, 437 cavalli, 13 muli, 330 asini, 487 pecore, 27 telai e 4 ruote da molino.

(Nel 1787 un terremoto con epicentro in Carnia)

Nel 1787 il vescovo Paolo Francesco Giustiniani, in carica da 27 anni, fu esonerato ed eletto Arcivescovo titolare di Calcedonia. Promovetur ut amoveatur, forse semplicemente per anzianità, visto che sarenne morto due anni dopo. Il suo posto fu preso da Bernardino Marini, abate lateranense, che giunse a Treviso nel 1788. Principi e nobili di tutta Europa avrebbero tremato.
L’anno successivo (1789) fu quello della rivoluzione francese. Idee nuove si sarebbero diffuse: gli ideali di libertà, uguagliaglianza, fraternità avrebbero permeato ogni discorso e ogni iniziativa; in Francia la giustizia si sarebbe coniugata col desiderio di vendetta e sarebbe giunto il Terrore. Principi e regnanti di tutta Europa avrebbero tremato e anche a Venezia, a Treviso si sarebbero avuto manifestazioni di novità. Ma ai margini della città, anzi, in mezzo alla campagna vera e propria, la vita proseguiva molto uguale a se stessa.
E tuttavia lo spirito illuminista investì anche il paesotto di San Donà; e anzi, a San Donà più che altrove, sul cadere del XVIII secolo, l’influenza della propaganda massonica delle idee di sovranità popolare, di libertà di coscienza, di diritti e doveri civili, distinti dai doveri e diritti inculcati dalla chiesa, si diffuse rapidamente, prova ne sia che il Vescovo Bernardino Marini nel 1791, seriamente impressionato per il numero esorbitante degli abitanti di questa terra che si rifiutavano di confessarsi, fu costretto a inviare sul luogo una speciale missione di esperti predicatori, i quali ebbero il loro bel da fare per vincere in parte la ripugnanza alle discipline ecclesiastiche.

26 maggio 1791: visita pastorale del vescovo Bernardino Marini

Parroco era don Antonio Boldrin

Vita quotidiana alla fine del XVIII secolo

Si andava a servizio in villa, si lavorava per il possidente. Gli abitanti del paese erano in gran parte villici, legati alla terra e con poche speranze di riscatto. Le giornate lavorative erano di dodici ore. L’istruzione era pressoché nulla.
Le idee dalla Francia non avevano scosso un paese di campagna che doveva apparire anche a se stesso torpido e in decadenza.
Le tradizioni venivano perpetuate con diligenza. Erano tradizioni per metà religiose e per metà pagane. A ogni tradizione si legava un cibo particolare, cui veniva assegnato quasi un carattere propiziatorio. Vi era, ad esempio, la consuetudine di «lisar [=lessare] la bondiola el dì de la Sensa». Altre tradizioni assegnavano invece a determinate festività delle consuetudini: San Martino era il termine per la disdetta di un fittavolo o della casa. San Giacomo quello per il pagamento del frumento.
Alla prima domenica di maggio era legata la gentile usanza di offrire un bocciolo di rosa alla “morosa” o alla donna che s’intendeva corteggiare ponendoglielo sul davanzale: se lo spazzava via significava che il corteggiatore non era gradito. Anche l’offrire l’acqua santa al termine della messa aveva lo stesso significato e la ragazza poteva far intendere che accettava il corteggiamento accettando l’acqua dalla mano del giovane.
Sempre all’inizio della primavera era connessa una usanza un po’ meno gentile, quella di addossare un mazzo di lengue de vacca all’uscio delle donne più pettegole e un mucchietto di fieno alla porta di quelle giudicate di facili costumi.

Quanto alla vita quotidiana, differiva di poco da quella delle epoche precedenti, e procedeva in fondo come procedeva da centinaia di anni: si nasceva, si veniva battezzati, non si veniva istruiti, ci si sposava con l’uomo o la donna conosciuti a messa, o con quello suggerito da un conoscente, si mettevano al mondo dei figli, li si battezzava, si invecchiava e si moriva, talvolta di vecchiaia, più spesso di qualche male che non si sapeva spiegare.
Variazioni minime avevano subito il vitto, l’arredamento delle case e l’abbigliamento. Quest’ultimo sul morire del XVIII secolo si era arricchito di un indumento intimo femminile, ma la maggioranza (specie nelle campagne) lo rifiutava giudicandolo sconcio e tipico delle donne perdute.

Come nel passato molte erano le superstizioni e si faceva gran uso di filtri magici o di amuleti sia per provocare Fatture che per scongiurarle e si ricorreva molto spesso a maghi e a fattucchiere.

Chiudiamo riportando a mo' di curiosità alcune credenze e delle ricette miracolose. La notte di San Giovanni i buoi parlano per cui non si doveva entrare nelle stalle perché chi li ascoltava avrebbe potuto impazzire. La donna che avesse filato la lana o indossato qualche indumento di colore rosso il giorno delle ceneri sarebbe stata afferrata e portata via dalle strighe. Guai a chiudere a chiave la porta di casa la sera dei morti poiché quella notte i defunti ritornavano alla propria abitazione e nel sentirsi respinti avrebbero maledetto i familiari. Lo spargere il sale sulla tovaglia portava male per cui occorreva immediatamente versarvi sopra del vino rosso. Le streghe non entravano nella casa sul cui uscio erano state apposte tre piccole croci ricavate dal palo del paviner. Un decotto di ortiche, raccolte con la mano sinistra, nottetempo e a bon de luna, allontanava le streghe dai bambini e li preservava dal morbillo. La pelle del masurin usata per tergersi le lacrime guariva le malattie degli occhi.
Il porre tra i seni tre perle legate con scorza di salice, precedentemente esposte per tre notti al chiar di luna in una ciotola colma del latte di una capra nera, assicurava un agevole allattamento alle madri. Infine un impasto di sego e schit di gallo rendeva forti e morbidi i baffi, come quelli del narratore sottostante.