STORIA di SAN DONÀ
dal 1866 al 1903

Esito della III guerra d'indipendenza

Il 13 luglio le truppe austriache lasciarono Treviso, il 18 luglio i Cavalleggeri di Monferrato entrarono nel nostro territorio a sancire un ideale passaggio di consegne.
Il 3 agosto giunse a Treviso il marchese Rodolfo D’Aflitto, commissario di re Vittorio Emanuele, per applicare, ancor prima del trattato di pace, le leggi del Regno, comprese quelle antiecclesiastiche.
Il giorno dopo il vescovo Zinelli si recò a fargli visita, che il D’Aflitto ricambiò qualche giorno dopo consigliandogli di dimostrare pubblicamente di non essere un austriacante ma di approvare il nuovo stato di cose. Numerose erano infatti le contestazioni contro il vescovo, che diradò le sue uscite, anche se il 17 agosto egli scrisse una lettera in cui conculcava obbedienza al legittimo sovrano (che proprio tale non era perché ancora non era stato firmato il trattato di pace né si era svolto il plebiscito per l’annessione).
«Noi siamo pronti in questa solenne occasione di inculcare a voi sacerdoti e per mezzo di voi alla popolazione di riconoscere in questo tramutamento politico il dovere che hanno tutti distintamente di mantenere la pace e la tranquillità, di prestare obbedienza alle autorità incaricate dall’augusto nostro sovrano Vittorio Emanuele II e non solo obbedienza, ma rispetto e onore come prescrive il Vangelo».

Non cessarono le manifestazioni ostili.

Il trattato di pace di Vienna, firmato il 3 ottobre 1866, dispose testualmente che la cessione del Veneto (con Mantova e Udine) al Regno d’Italia (che beneficiava della vittoria prussiana pur essendo stata sconfitta dall’Austria per terra a Custoza e per mare a Lissa) dovesse aversi “sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate”.
Napoleone III procedette all’organizzazione di un plebiscito, in onorevole ottemperanza del trattato di pace, tuttavia fu soggetto a forti pressione da parte di casa Savoia, affinché cedesse anzitempo le fortezze e il controllo militare della regione in anticipo sull’esito del plebiscito e anche la stessa organizzazione del plebiscito. Il conte di Gramont, cui fu affidato provvisoriamente il territorio del Veneto attuale, più Mantova e il Friuli (Pordenone-Udine), cercò di rispettare l’impegno. Ma le pressioni di casa Savoia furono tali che alla fine Napoleone III ordinò al conte di Gramont di ritirarsi e di consegnare le fortezze e di lasciar occupare il Veneto alle truppe di casa Savoia. Così il plebiscito fu organizzato da casa Savoia, che lo organizzò in modo da non dover contrattare nulla con i Veneti, che secondo alcuni persero così l’ultimo sprazzo di autonomia e libertà.

A Treviso intanto il vescovo Zinelli non voleva che venissero chiamati “martiri dell’indipendenza italiana” quelli in onore dei quali si voleva celebrare una messa in cattedrale il 19 ottobre, essendo “martiri” solo i cristiani vittime delle persecuzioni romane, né che il discorso funebre fosse tenuto dal sacerdote trevigiano designato dal comune, don Feliciano Fortran, noto patriota dalle idee liberali. Si trovò un compromesso e le esequie vennero celebrate senza usare la locuzione incriminata.

Il plebiscito

Si votò il 21 e 22 ottobre e l’accesso alle operazioni di voto, come per altri plebisciti e consultazioni elettorali dell’epoca, fu limitato alla popolazione maschile di un certo censo: interessò pertanto solo una parte minoritaria della popolazione veneta (meno di 650.000 votanti su un totale di 2.603.009 residenti). Il risultato (646.789 sì; 69 no; 567 voti nulli), rispecchiò l’assoluta mancanza di segretezza nel voto e di trasparenza nelle conseguenti operazioni di scrutinio. In tal modo, la sostanziale sconfitta militare del Regno d’Italia nella Terza guerra di indipendenza italiana del 1866 si trasformò in un successo politico per casa Savoia.

Per i comuni la nuova legge elettorale stabiliva un Consiglio Comunale di venti membri. Votavano i cittadini maschi di ventun anni alfabeti, che pagavano imposte comunali, o che erano impiegati dello Stato, decorati al valor militare, o in possesso di un titolo di studio medio-superiore o universitario. Erano escluse le donne insieme con vari strati della popolazione. Si totalizzava una bassissima percentuale di votanti.

Il 15 novembre il re giunse a Treviso e il 16 si incontrò col vescovo Zinelli, che lo stesso giorno scrisse al patriarca Trevisanato: «L’odio dei settari che vorrebbe distrutta la religione non cesserà contro di noi, ma è un conforto capire che l’animo del re è religioso». Le prime elezioni amministrative si svolsero il 23 dicembre 1866 e il primo sindaco di San Donà di Piave fu Giuseppe Bortolotto.

Negli anni successivi all'annessione al Regno d'Italia, nuovi lavori di bonifica interessarono il sandonatese, segnando la metamorfosi ambientale del territorio e incrementando la produttività della zona: tra il 1865 e i primi anni del Novecento furono avviate 48 bonifiche a prosciugamento meccanico e messi a produzione 11.000 ettari (un quarto del territorio compreso tra i fiumi Sile e Livenza.

Nel 1867 San Donà fu onorata della visita del generale Nino Bixio che stava facendo uno studio sulla navigazione fluviale. A titolo di curiosità riportiamo dalla nota delle spese fatte dal municipio in onore del grande garibaldino la seguente: Colazione per sei persone L. 15,43.

Nel 1868 fu pubblicato il Dizionario Corografico dell’Italia a cura del prof. Amato Amati – dott. Francesco Vallardi, tipografo editore – Milano. A pag. ... del volume ... c’erano le righe riguardanti il Comune di San Donà:

...

Visita pastorale del 10 MAGGIO 1868

Andò monsignor Giuseppe Biscaro ad accogliere il vescovo Zinelli.

Il Concilio Vaticano I

Torniamo a seguire il vescovo Zinelli, che in novembre partì per Roma per partecipare al Concilio Vaticano I, dove avrebbe avuto una parte importante nella Commissione De Fide nell’estensione della costituzione Pastor aeternus sull’infallibilità e il primato del papa e come relatore della stessa. Ma il Concilio il 18 luglio 1870 fu sospeso e il vescovo ritornò in diocesi.

20 settembre 1870: Roma italiana

Molti sandonatesi furono chiamati alle armi per la restituzione di Roma all’Italia ma soltanto Luminato Luigi, Furlanetto Giovanni, Battistella Francesco, Canever Costante, Dal Moro Angelo, Rorato Luigi e Dus Angelo ebbero la grande soddisfazione di entrare trionfanti nella città eterna il XX settembre 1870.

Con i nomi sopra si completa l'elenco dei valorosi sandonatesi...

[Plateo] ... che pugnando per l’unità e l’indipendenza della patria versarono il loro sangue sui campi di battaglia, di quelli fra essi che furono feriti o che meritarono la medaglia al valor militare, nonché di tutti gli altri che offersero e esposero impavidi la loro vita per spezzare le catene del servaggio, onde additarli alla gratitudine imperitura dei presenti e dei posteri, e ci auguriamo che la lapide ai caduti combattendo venga completata coi nomi di Bincoletto, De Nobili, Rasa ed altri, per meglio eternare l’eroica fine di questi valorosi concittadini, certi che al marmoreo ricordo non mancherà mai il conforto di «amorosi lauri». Se qualcuno ci dirà: Quarant’ottate! Quarant’ottate! noi risponderemo che coll’anima gelida come un’arca sepolcrale, senza fremiti per gli oppressori, senza palpiti per la libertà, senza il vessillo di S. Marco, il carroccio e la bandiera tricolore, i secolari dominatori d’Italia non avrebbero rivarcati i monti, e le libere forme non ci avrebbero aperte le vie feconde del miglioramento morale e materiale.

L’occupazione di Roma del 20 settembre e il mito di Pio IX-prigioniero rafforzarono nel vescovo Zinelli, se ce ne fosse stato bisogno, il suo amore e la sua devozione al papa. Lo dimostrò nella celebrazione del giubileo episcopale di Pio IX il 16 giugno 1871 che egli volle abbinata alla consacrazione al Sacro Cuore di tutta la diocesi, occasione per far sorgere in molte parrocchie le Pie unioni del Sacro Cuore di Gesù.

Il 29 giugno 1873 si avvertì una scossa di terremoto il cui epicentro era nella zona di Ceneda; non si ebbero danni.
[Archivio del patriarcato di Venezia]

Nuova salubrità in riva alla Piave

Ma la vera scossa, in senso positivo, per il basso Piave fu il ripristino della Piave Vecchia (1873) che consentì di riportare la salubrità dell’aria in una zona ch’era diventata sempre più depressa dalla costruzione del taglio del Sile. Ciò fu possibile grazie alla costruzione della conca dell'Intestadura, grazie alla quale il tragitto da San Donà a Venezia fu ridotto di km 26,200 (via Portegrandi) e di km 23,500 (via Cavallino-Treporti).

In pochi anni di libertà San Donà era già la «prima nella provincia per l’agricoltura» (Monografia Agraria Avv. Stivanello, 1873, pag. 145). I mezzi di comunicazione venivano sviluppati con spirito di modernità, mediante il completamento della rete stradale del Comune; si attivò la navigazione fluviale con i piroscafi; ma soprattutto si costruì il...

... primo ponte sul Piave fra San Donà e Musile

Alla fine dell’anno 1874 cominciarono i lavori di costruzione del ponte in legno sul Piave da parte delle Ditte Bortolo Lazzaris ed Alessandro Wiel, che si erano aggiudicate l’appalto.
I lavori durarono un anno e si conclusero alla fine del 1875: il ponte venne aperto al transito negli ultimi giorni di dicembre del 1875. Il collaudo definitivo fu effettuato il 5 agosto 1876. La spesa complessiva del ponte fu di lire 213.049,11 cioè di lire 33.449,11 in più di quella prevista dal progetto e dal capitolato d’appalto.
[C’era una volta Musile]

Abbiamo già anticipato come, con l’avvento del regno d’Italia e l’avanzare di una borghesia di nomi nuovi, tendessero a scomparire i cognomi dell’antica nobiltà che per secoli aveva posseduto terreni nelle nostre zone.
Nella seconda metà del secolo XIX questi possidenti, alcuni dei quali secolari (come i Foscari, il cui capostipite era creato Conte di Noventa nel 1331 - anche se occorre indagare che non si trattasse della Noventa Padovana, errore in cui incorse l’Agnoletti - e gli Azzoni, il cui capo, Altiniero, s’ebbe la possessione dalla repubblica nel 1358) scomparvero tutti.
Molte congetture - scriverà il Plateo nel 1907 - si sono fatte intorno al rapido cambiamento dei possessori dei beni, fra cui quella che la nobiltà veneziana vivendo in città, senza l’amministrazione diretta dei beni condotti da grassi gastaldi poco teneri di progressi agricoli, alla fine dell’anno si trovava colle rendite insufficienti a pagare i pesi aumentati per i consorzi di difesa e scolo delle terre; e l’altra che la borghesia, dopo l’abolizione dei privilegi, poté con affittanze impresarie e con acquisti di piccole porzioni di terreno frazionare i latifondi trascurati, dare un indirizzo nuovo all’agricoltura superando gli ostacoli creati dall’inerzia dei gastaldi e dei padroni;
ma la ragione vera dei progressi deve ricercarsi nei tempi nuovi, che permisero alla borghesia di spiegare tutta l’attività, tutta l’intelligenza nel dare nuovo impulso alla coltivazione delle terre, nel guadagnare nuove estensioni al lavoro dell’aratro, nell’allontanare gli allagamenti e la malaria e nel rendere l’agricoltura, non solo rimunerativa, ma anche una fonte considerevole di guadagni.
La borghesia ottenne in mezzo secolo [il Plateo scrive nel 1907 e parla dunque del primo cinquantennio del Regno d’Italia] ciò che il patriziato non fu capace di ottenere in cinque o sei secoli.

Ma queste considerazioni non erano così evidenti e le notizie storiche così conosciute per impedire in quel 1875 che venisse murata sulle pareti porticale del palazzo municipale una pomposa iscrizione marmorea, dettata da Venanzio, nella quale si magnificava la generosità del patrizio Angelo Trevisan del 1480, affibbiandogli il merito dell’iniziativa del risorgimento agricolo di S. Donà.

QUEL DISEGNO CHE IL GENEROSO PATRIZIO TREVISAN PER FECONDARE QUESTE INCOLTE E DESERTE SPIAGGE CONCEPÌ NEL SECOLO DECIMO QUINTO IL TEMPO FELICEMENTE COLORÌ ED ORA LE AMPLIATE ABITAZIONI E I CAMPI FIORENTI E LE OPEROSE INDUSTRIE E LA DIFFUSA CIVILTÀ E IL TEMPIO SUBLIME ALL’UMILE SACELLO SUCCEDUTO E LA CURIA CHE DAI FONDAMENTI SORGE A PRESIDIO E A DECORO ED IL SOSTEGNO ALL’INTESTADURA E IL NUOVO PONTE SUL PIAVE MOSTRANO AVVERATE LE SORTI CHE L’ANGELO DATO A SIMBOLO A QUESTA PATRIA ANNUNZIAVA ONDE IL MUNICIPIO SICCOME LA MEMORIA DELLE ORIGINI, FU AL MARMO AFFIDATA COSÌ DOPO TRECENTONOVANTACINQUE ANNI QUELLA DEI PROGRESSI VOLLE CHE FOSSE MDCCCLXXV

Dirà il Plateo:
Anzitutto convien riflettere che non tutte le iscrizioni marmoree laudative delle virtù dei trapassati sono sincere, e poi si deve perdonare a chi ispirò la lapide l’errore comune di altri scrittori di credere che Trevisan si sia interessato alla costruzione della chiesa e del miglioramento dell’agricoltura più de’ suoi predecessori, de’ suoi vicini, de’ suoi successori, per fatto che lasciò nella chiesa una lapide altisonante per affermare l’iuspatronato, e nel campanile lo stemma (che porta l’angelo dei Trevisan, e che sarà erroneamente creduto simbolo del paese), proprio per affermarne la proprietà Lo stemma
Certamente se l’ispiratore della iscrizione municipale, avesse riflettuto sul significato della lapide e dello stemma Trevisan e si fosse informato meglio del come andarono le cose, non avrebbe ingannato Venanzio e il pubblico sandonatese, perché si sarebbe accertato che Angelo Trevisan, a differenza dei Malipiero, dei Zen e di altri del patriziato veneto, padroni di terre in questi luoghi, rispose poco generosamente all’obbligo solennemente assunto di costruire la chiesa, e fece comparire di sua proprietà il campanile costruito a spese del popolo, tanto è vero che i massari lo costrinsero ad abbandonare l’amministrazione della chiesa per l’avarizia spiegata, e così la chiesa poté venir completata nelle decorazioni coi denari del parroco De Marchi e il campanile con quelli dei terrazzani. [...]
Intanto per meglio dimostrare che Angelo Trevisan non s’è meritato né il titolo di generoso, né quello di ideatore della redenzione delle terre, ricordiamo:
I ­ Che questo territorio sotto i Trevisan non ha migliorato punto, risultando dalle carte antiche che le paludi nel 1700 giungevano fino al centro abitato, tanto è vero che gli abitanti dei casolari sparsi erano costretti a transitare in barca per assistere alle funzioni religiose e le barche venivano fermate presso la chiesa.
II ­ Che la popolazione sotto i Trevisan ha variato dai 1800 ai 2100 abitanti, compreso Musile e le Mussette, e quando la famiglia Trevisan si estinse, non rimanendo più maschi (1650), gli abitanti raggiunsero il massimo di 2700, mentre invece nel 1770 raggiunse il numero di 3212 e nel 1868 di 7512 [Dati ufficiali raccolti all’archivio di Stato.]
III ­ Che sotto i Trevisan non furono costruite strade pubbliche e non esisteva un sistema di difesa dalle acque atto a preservare le terre dagli allagamenti.
IV ­ Che i progressi agricoli incominciarono dopo l’istituzione dei consorzi idraulici, cioè sotto il regno Italico, come si rileva anche dalla monografia dell’Avv. Stivanello, pubblicata nel 1873, nella quale è detto «S. Donà da 50 anni, per opera di pochi valenti agricoltori, fece rapidi e giganteschi progressi agricoli » [Vedi anche la monografia Co. Sormani Moretti 1881 e l’inchiesta agraria 1880.]
Ciò che fa meraviglia si è che la lapide in onore di Angelo Trevisan fu dal Consiglio Comunale decretata nel 1875, epoca in cui era nota la monografia Stivanello e nei vecchi del paese era ancora viva la memoria dell’approdo delle barche presso la chiesa per mancanza di strade. Il colmo poi dell’inesattezza sta nel fatto che tale iscrizione confondendo la gastaldia colla terra di San Donà, fu collocata nel territorio di Mussetta, che non ha mai appartenuto ai Trevisan! Queste spiegazioni, frutto d’indagini pazienti e faticose, valgano a persuadere coloro che considerano la lapide e lo stemma Trevisan come patrimonio sacro al comune, che io mi apponevo al vero un quarto di secolo addietro, consigliando l’abbandono di tale stemma, rappresentando esso la negazione della vita locale. Sotto il governo austriaco l’agricoltura poté continuare la sua marcia ascendentale, rallentata però dalle leggi restrittive della libertà di pensiero, di riunione e di associazione.

In quel 1875 si completava sulla sinistra Piave il «sostegno Brian», fondamentale lavoro per l’igiene e l’agricoltura della zona, che faceva il paio con quello completato due anni prima sulla sinistra Piave, il «sostegno all’Intestatura».

Nel 1875 il vescovo Zinelli aveva dovuto interrompere la sua visita pastorale perché colpito da apoplessia. Appena si sentì meglio la riprese e la concluse sul finire dell’anno.

Nella foto qui a sinistra, risalente al 1876, vediamo in primo piano il vescovo Zinelli, stanco e carico di anni; alla sua sinistra (in primo piano a destra per chi guarda) è monsignor Pietro Jacuzzi, professore e rettore del seminario di Treviso.
Alle spalle di quest’ultimo si riconosce un giovanissimo monsignor Giuseppe Sarto, padre spirituale del seminario e futuro papa Pio X.
Era stato monsignor Jacuzzi, cappellano a Riese, ad avviare Giuseppe Sarto al sacerdozio.

Il 30 agosto 1876 la Principessa Margherita di Savoia, accompagnata dall’Ammiraglio Acton e dai Marchesi Monteremo, fu ricevuta dal Sindaco Trentin,

L'anno successivo, il 27 agosto 1877, un altro reale veniva a San Donà: il Principe di Napoli Vittorio Emanuele, futuro re d’Italia, venne a San Donà accompagnato dal personale di servizio. Si fermò un’ora a raccoglier fiori sulle rive del Piave.

Molto più interessante è che in quel 1877 si costituì la Banca Mutua Popolare.

Nuovo re e nuova papa

Nel gennaio del 1878 moriva Vittorio Emanuele II e gli succedeva il figlio Umberto I. Neanche un mese dopo, il 7 febbraio, moriva anche il suo grande rivale Pio IX nei Palazzi Vaticani, dai quali non era più uscito dopo il 20 settembre 1870. Il conclave durò molto poco, appena 36 ore. Al terzo scrutinio, il 20 febbraio 1878, fu eletto il cardinale Gioacchino Pecci che prese il nome di Leone XIII; aveva avuto la meglio sul cardinal Bilio, che passava come l’autore del Sillabo, mentre l’eletto «era stato chiaramente all’opposizione durante il pontificato di Pio IX», come ricorda Giancarlo Zizola. «Aveva vissuto tutti quegli anni in esilio a Perugia, dove peraltro s’era costituito un piccolo Vaticano, frequentato da intellettuali ed artisti, dove scriveva lettere pastorali che erano proprio il contrario delle encicliche di papa Mastai, perché affrontava con spirito positivo i maggiori problemi del tempo»; era forse quel successore che Pio IX stesso si augurava da quando aveva capito che uno come lui era fuori dal mondo.

Muore il vescovo. Nuovo vescovo

Il 20 novembre 1879 il vescovo Zinelli, forse impressionato dalla politica del nuovo pontefice, fu colpito da un secondo attacco di emiplegia e spirò il 24. In quei giorni i suoi nemici “ascoltando la voce dei poveri” deplorarono il loro passato atteggiamento “davanti all’uomo benefico che muore”. Fu sepolto nella cripta della cattedrale di Treviso.

Il 27 febbraio 1880 monsignor Giuseppe Callegari, appena trentanovenne, fu nominato vescovo di Treviso, senza averne completamente tutti i requisiti; l’11 marzo successivo il patriarca di Venezia concesse il permesso perché ottenesse la nomina episcopale. Il Callegari proveniva da Venezia dove aveva insegnato nel seminario ed era stato assistente spirituale del circolo della Gioventù cattolica. Fu consacrato lo stesso mese nella basilica di San Marco in Venezia da Domenico Agostini, patriarca, assistito da Giovanni Maria Berengo, vescovo di Mantova, e da Giuseppe Apollonio, vescovo di Adria.
Il 9 maggio fu consacrato vescovo di Treviso.

di Angelo Gambasin
Giuseppe CALLEGARI era nato a Venezia il 4 nov. 1841 da Pietro e da Angela Cescutti, in una famiglia appartenente alla piccola aristocrazia veneziana e di radicate tradizioni cattoliche; la madre, religiosissima, zelante della devozione alla Madre di Dio e del culto al Cuore di Gesù, aveva avuto e tuttora aveva una grande influenza sull’animo del figlio. Nel seminario patriarcale, ove dal 1860 Giuseppe aveva seguito i corsi di teologia, avevano contato molto gli orientamenti dei docenti.
Erano gli anni dei dibattiti sul Rosmini, dello sbollimento dell’entusiasmo neoguelfo giobertiano, dell’acuirsi della polemica pro e contro il potere temporale e la rivoluzione nazionale, della crisi passagliana e volpiana, dei fermenti rivoluzionari e indipendentisti tra la popolazione.
I patriarchi Ramazzotti e Trevisanato si erano dimostrati contrari al rosminianesimo, al volpianesimo, ma anche insofferenti del giogo giuseppinista; avevano tentato di favorire un rinnovamento radicale della Chiesa veneziana, con la ristrutturazione dottrinale romano-tridentina e il ritorno alla disciplina borromeiana e barbarigiana.
I maestri di teologia e i direttori di coscienza del Callegari erano tutti sulla linea patriarcale: Giovanni Saccardo in teologia biblica, catechetica e in sacra eloquenza; Giovanni Berengo in dommatica, storia ecclesiastica, patrologia e metodica; Matteo Fracasso in teologia morale. La direzione degli studi filosofici e teologici era nelle mani dell’ultramontano Zinelli. Il concilio provinciale del 1859 aveva codificato, estendendoli a tutta la regione, gli orientamenti del Ramazzotti, che, in sostanza, si avvicinavano molto a quelli che saranno espressi dal Sillabo alcuni anni dopo (1864). Callegari assorbì questa spiritualità intransigente diffusa nell’ambiente veneto: la matrice cristocentrica e la mentalità ecclesiale papale saranno le costanti della sua vita, spirituale e del suo metodo di apostolato. Ma egli attinse anche ad altri filoni della cultura: in primo luogo al romanticismo apologetico di un Lacordaire e di un Montalembert; al neoguelfismo del Gioberti del Primato e del Balbo. Il dramma politico-religioso di Pio IX con la svolta intransigente seguitane, il progresso della rivoluzione nazionale avevano acuito la sensibilità del neovescovo sui problemi più urgenti della società religiosa di quell'epoca: l’incontro della Chiesa con le libertà moderne; i rapporti tra scienza e fede; la questione operaia; i metodi di apostolato; il posto del laico nella comunità cristiana.
Ordinato sacerdote nel 1864, aveva rinsaldato la sua amicizia con il gruppo più intransigente di Venezia (Berengo, Cherubin, Apollonio, Cicuto, Saccardo); era stato cofondatore del Veneto cattolico, organo della corrente papale clericale del Veneto.
Nel 1871 aveva partecipato alla prima esperienza congressuale cattolica su base regionale, celebrativa della battaglia di Lepanto; tra il 1871 e il 1874 era stato tra i protagonisti del progetto dell’Opera dei congressi, che aveva debuttato con il primo congresso cattolico nazionale a Venezia nel 1874. A tale scopo, aveva stretto legami strettissimi con Paganuzzi: binomio importante nello sviluppo dell’intero movimento cattolico nazionale.

La nomina di Giusepe Callegari a vescovo di Treviso fu annunciata ai diocesani dal vicario capitolare mons. Giuseppe Sarto. L’ingresso del vescovo a Treviso ebbe luogo il 26 giugno.

Si interessò da subito del seminario, la cui situazione economica era disastrosa: «La deprecata legge della conversione e liquidazione dei beni ecclesiastici – e sono le leggi del 1866 e 1867 che il regio commissario D’Aflitto si era affrettato ad applicare ha talmente diminuiti i redditi del seminario che, pagate le tasse, non resta quasi nulla». Fortunatamente poté contestare alcune disposizioni e riottenere 15.000 lire di cui 1.000 in titoli di stato. I chierici erano 69 e appena 25 riuscivano a pagare la piccola retta: fortunatamente appianavano i conti i collegiali non seminaristi. Non sappiamo se tra quei 44 seminaristi poveri ci fosse anche Natale Simionato, quasi quindicenne, del quale però sappiamo che frequentò il seminario di Treviso.

Lotte di classe

Se prima del 1870 a San Donà non si erano avvertiti dissidi di classe, negli anni dal 1870 al 1879 vi erano state delle lotte amministrative tra la piazza e il Municipio; i primi sintomi del malcontento della classe povera si manifestarono nell'inverno 1879­80 dalle turbe fameliche dei braccianti che salivano le scale del palazzo municipale armati della parola d’ordine «pane e lavoro!» Le scene dolorose si sarebbero ripetute negli anni successivi, nonostante i...

... grandi progressi

Furono sistemati i vari consorzi di scolo e di difesa e creato un nuovo consorzio col nome di Piveran (1880). Cominciavano i lavori di costruzione della linea ferroviaria che avrebbe collegato Venezia a Portogruaro.
Buttiamo là la notizia che a San Donà si tenne il congresso ginnastico nel 1880, che lascia intuire un miglioramento delle condizioni fisiche generali, o alneno nella classe più agiata.

Il 3 ottobre 1880 per l’inchiesta agraria venne a San Donà l’onorevole Emilio Morpurgo ed egli poté rolevare che pochi anni di libertà erano bastati per dare al paese uno sviluppo straordinario, tanto da fargli meritare il titolo di «Oasi del Veneto» (come riportava appunto l’Inchiesta agraria, 1880) e l'anno seguente quello di «Olanda del Veneto», nella monografia Sormani Moretti 1881.

Nel 1881 vi si teneva il Congresso delle banche, sotto la presidenza dell’onorevole Luigi Luzzatti

In un clima così positivo, quasi positivista, non ci si dimenticava degli eroi del Risorgimento locale.

Eretta una colonna spezzata in cimitero onore di Antonio Cimetta

Una colonna spezzata nel cimitero, collocata sulla fossa che racchiude le ossa del Cimetta, fu eretta in occasione del 32° anniversario della morte del patriota italiano fucilato presso il Piave dal colonnello Radetzsky (figlio del famoso generale). Questa l'iscrizione che riportava l'annessa epigrafe:

ANTONIO CIMETTA MARINAIO DI PORTOGRUARO AGENTE CORAGGIOSO DI QUELLA COSPIRAZIONE CHE HA REDENTA LA PATRIA A MORTE DA TRIBUNALE AUSTRIACO CONDANNATO SUBIVA INTREPIDO LA FUCILAZIONE IN QUESTO COMUNE 14 GENNAIO 1849 SPIRANDO COL GRIDO VIVA ITALIA I CITTADINI DI S. DONÀ NEL XXXII ANNIVERSARIO

(ossia il 14 gennaio 1881)

Monsignor Callegari, vescovo di Treviso da due anni, aveva un bel volto ovale, i capelli corti leggermente brizzolati sulle tempie, il naso dritto e deciso sopra una bocca dalle labbra sottili. Cominciò molto presto la sua visita pastorale alla diocesi.

VISITA PASTORALE DEL 1882

Ma se vi era una qualità netta in monsignor Giuseppe Callegari, era quella di saper scegliere gli uomini: si era difatti scelto come collaboratore personale monsignor Giuseppe Sarto, il più stimato della Curia, e l’aveva eletto direttore del seminario e cancelliere della curia. Con lui giunse in visita pastorale a San Donà. Ci vien da immaginarceli (questo e quello) soddisfatti e compiaciuti mentre leggevano le risposte date da monsignor Giovanni Rossi al questionario inviato per tempo.

Fine resoconto visita pastorale del 1882
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1882: di nuovo il Piave

In settembre piogge eccezionali e continue portarono i fiumi veneti a livelli di piena mai registrati. “Il 16 settembre dell’anno 1882 si verific[ò] la massima piena conosciuta...” (dal 1851); il Piave “con un salto di fronte a S. Donà si apr[ì] un nuovo canale abbandonando il giro vizioso dalla parte di Musile”.
[Giuseppe Pattaro: “Il fiume Piave” – Studio Idrologico Storico, edito a Roma nel 1903 dalla tipolitografia del Genio Civile, nella cronologia delle rotte del Piave, pp.38-39]

La Piave ruppe in più punti su entrambi i versanti e tornò ad invadere le campagne del paese; distrusse anche il recente ponte di legno tra Musile e San Donà e s’abbreviò il cammino appena dopo il ponte:

“non erano ancora trascorsi sette anni dalla sua costruzione allorché il ponte in legno fra San Donà e Musile venne investito obliquamente ed infine travolto dalle acque del fiume irruenti per la squarciata golena delle Ganze. Nella grande piena del 16 settembre 1882, che all’idrometro di Zenson di Piave oltrepassò i 74 cm la massima conosciuta, dal 1851, senza superarla a San Donà in grazia delle rotte avvenute superiormente, il fiume, sorpassata la breve golena, si precipitava nel ramo inferiore, guadagnando con l’abbandono del nastro superiore un abbreviamento di ben 1235 metri. Il corso della piena, diretto per nuovo alveo quasi normalmente contro l’argine destro, sul fronte di Musile, tenne in grande apprensione quegli abitanti. Fortunatamente la rotta venne sostenuta da una golena larga appena una ventina di metri, ma fitta di vegetazione. Quattro delle stilate del ponte di legno vennero scalzate e rovinarono cinque campate, restandone ancora otto incolumi sulla sinistra e due silla golena destra. La quale veniva fortemente intaccata subito inferiormente al ponte, determinando anzi la distruzione di un molino a vapore della Ditta Finzi. [Da Il ponte sul Piave fra S. Donà e Musile! – Cenni storici raccolti dall’avv. Settimio Magrini, Segretario Generale della Provincia di Venezia, 12 Novembre 1922, pag. 7]

L’alluvione funesta interessò 25 comuni e circa 38.000 abitanti: la superficie inondata fu di 56.000 ettari, l’altezza media delle acque nelle campagne di 3 metri.

Il 26 settembre venne il Ministro dei Lavori Pubblici Alfredo Baccarini ad accertarsi delle condizioni e delle necessità. E non portò bene perché il 28 ottobre il fiume ebbe una seconda ondata di piena e fuoriuscì a Noventa di Piave. Tutta la zona fu allagata: a San Donà di Piave e a Ceggia l’acqua superò il metro d’altezza e in alcune zone più a valle i due metri. Reparti dell’esercito e della marina, dotati di pontoni, furono inviati da Venezia per soccorrere le popolazioni colpite.
[Treviso, Biblioteca comunale, numeri diversi de «Il Sile »]

Malaria e miseria

Gravissima conseguenza delle alluvioni fu la recrudescenza delle febbri malariche; cosa drammatica in una zona che la ‘Carta della Malaria in Italia’, elaborata nel 1880, considerava già fra quelle maggiormente funestate dal morbo. C’era però un fatto nuovo: per la prima volta in un’alluvione intervenivano direttamente nell’opera di soccorso le istituzioni dello Stato. Si ebbe pure un interessamento statale ai problemi idraulico-sanitari, poiché dopo l’unità d’Italia si andò finalmente facendo strada il concetto del dovere sociale del risanamento ambientale, con particolare riferimento alla malaria. Si riconosceva che l’ambiente palustre era ideale per l’endemia malarica e che gli abitanti oltre ad essere continuamente tormentati dal morbo subivano spesso gli effetti delle sue forme maligne e perniciose da cui derivava un alto tasso di mortalità.

Anche le proteste per la fame si moltiplicarono. E se le dolorose scene di protesta dei poveri che chiedevano «pane e lavoro» si erano ripetute negli anni ultimi, ma si trattava pur sempre si una protesta circoscritta a qualche centinaio di braccianti privi di polenta nel crudo verno, in quel triste 1882 a causa dell’allagamento di buona parte del territorio si verificò un inasprimenro delle proteste; meno male che i sussidi dei fratelli d’Italia pronti, ed abbondanti, calmarono gli animi (Il comitato pei soccorsi chiuse i suoi conti con un attivo di Lire 3370, destinate all’erigendo ospedale). Intanto alla parola d’ordine «pane e lavoro» si era sostituita l'altra «la bóge» (=sta bollendo) che suonava fermento, ebollizione minacciante lo scoppio della guerra civile, ma l’indole del contadino del basso Piave era così mite che non si vide il passaggio dalle parole ai fatti.

E mentre a livello comunale e provinciale si pensava a come ricostruire il ponte sul Piave e combattere la malaria....

Per le inaugurazioni della Società Operaia nel 1883 venne a San Donà qualche onorevole o senatore, non ho ancora trovato quale.
Vennero in quel 1883 i Senatori francesi Say e Labiche (attenti a non leggere Gay e Lesbiche) per uno studio sugli istituti di credito e di mutuo soccorso. Al banchetto loro offerto Léon Say fece il seguente brindisi:

“In Francia non si ha ancora una idea perfetta di quanto abbiano progredito queste vostre utilissime istituzioni, che oggi abbiamo ammirate, ed io sono ben lieto di portare al mio paese le eccellenti impressioni ricevute”.
[Revue géographique internazionale 1886, pag. 193)]

Nel 1883 il vescovo Callegari fu trasferito a Padova dove avrebbe dato alle sue funzioni vescovili un’impronta, sotto certi aspetti, originale.

A Treviso non era ancora giunto il nuovo vescovo Giuseppe Apollonio: fu nominato infatti solo il 9 giugno 1883.

Nuovo vescovo

Giuseppe Apollonio giungeva dalla diocesi di Adria. A dir il vero papa Leone XIII nell’aprile di quattro anni prima lo aveva nominato vescovo di Mantova, grande e difficile diocesi, ma egli aveva nella sua umiltà rinunciato. Non aveva tuttavia potuto rifiutare la nomina a quella di Adria da dove fu trasferito a Treviso il 25 settembre 1883.

Nel 1884 il Genio Civile riordinò e sopraelevò le arginature da Nervesa al Mare.

Sul finire del 1884 giungevano a compimento (dopo quattro anni) i lavori di costruzione della linea ferroviaria che collegava Venezia a Portogruaro e divise in due i territori di Croce e San Donà.

28 giugno 1885: inaugurazione linea ferroviaria Mestre-San Donà di Piave


Le linee ferroviarie prima del 1885

Con l’Unità d’Italia le linee ferroviarie erano divenute necessità impellenti, ancor più per un territorio che dopo la terza guerra di indipendenza iniziava a espandersi verso est. Molta della rete ferroviaria presente in Veneto e nel Friuli divenuto italiano era stata costruita o era in via di completamento dagli austriaci, per cui le linee che raggiungevano Venezia seguivano la direttrice che da Vienna lungo la Pontebbana arrivava a Udine per poi diramarsi verso Venezia e verso Trieste. La necessità di collegare direttamente Venezia a Trieste, allora ancora parte dell’impero austroungarico, divenne presto un’urgenza. Il dover passare ogni qualvolta per Udine allungava a dismisura il percorso così che venne ideata una nuova tratta che in linea retta avrebbe dovuto congiungersi con la ferrovia già esistente a Monfalcone. Fu così che la Società Italiana per le strade ferrate meridionali venne incaricata della costruzione del tratto Mestre-Portogruaro. Il primo stralcio fino a San Donà di Piave venne aperto il 29 giugno 1885; un anno dopo la linea ferroviaria arrivò sino a Portogruaro e fu aperta il 17 giugno 1886.
[Per arrivare al completamento della linea ferroviaria che collegava definitivamente Venezia a Trieste si dovrà aspettare il 18 ottobre 1897 quando l’incaricata Società Venete Ferrovie, dopo aver inaugurato nel 1888 la tratta fino a San Giorgio di Nogaro, completò l’ultimo tratto italiano fino all’allora austriaca Cervignano, dove nel frattempo gli austriaci avevano completato la linea da Monfalcone.]

L’annuncio dell’inaugurazione della ferrovia
Domenica 28 andante, alle 9 e 15 ant., moverà da Venezia il treno ferroviario inaugurale per giungere in questa stazione verso le 10 e mezzo, colle Rappresentanze del Governo, della Ferrovia e dei comuni deputati, senatori e altri personaggi distinti.
Sarà ricevuto qui dalle autorità locali con il maggior decoro possibile. Mentre il paese si prepara a salutare il fausto avvenimento dell’apertura della linea Mestre-San Donà all’esercizio, col maggior entusiasmo, il Comitato farà del suo meglio perché la festa riesca solenne.
Le bande cittadine di Venezia e di Mestre rallegreranno il paese, imbandierato straordinariamente.
La sera poi il rinomato pirotecnico Giuseppe Tantin eseguirà dei fuochi d’artificio con quattro graziose macchine a giocate diverse, candele romane, serpentoni e razzi di forme e colori vari.
Chiuderà lo spettacolo la fulgida Stella d’Italia con batterie.

San Donà di Piave, li 26 giugno 1885.

Il Comitato

In un lungo articolo nella 3^ edizione della Gazzetta di Venezia del 28 giugno 1885 si raccontava l’inaugurazione del tratto ferroviario Mestre-San Donà

«Inaugurazione della ferrovia di San Donà»

Veniamo ora, e sono le ore 5 pomeridiane, da San Donà, avendo avuto luogo oggi l’inaugurazione della ferrovia, la quale se da oggi congiunge Venezia a quell’importante Distretto mira a ben maggiori obiettivi dovendo più tardi allacciarsi colla Pontebbana.
Alle ore 9 ant. erano alla Stazione il R. prefetto colla Deputazione provinciale, il sindaco colla Giunta, l’on Pellegrini, il comm. Diena ed altri consiglieri provinciali e comunali, il maggior generale Palmieri, il procurator generale comm. Noce coi sostituti procuratori generali cav. Moscono e Favaretti, il comm. P.V. Vanzetti procuratore del Re, il comm. ab. Bernardi, il R. questore, gli ingegneri Legrenzi e Pastori delle ferrovie, l’ing. cav. Forcellini, il magg. dei RR. Carabinieri e molte altre rappresentanze, tutta la stampa veneziana, la Banda ecc.
Il viaggio fu felicissimo, e lungo la linea se l’accoglienza delle popolazioni non fu entusiastica – con l’ora inopportunamente scelta con questa canicola – fu però sempre cordiale.
A tutte le stazioni, addobbate con bandiere e trofei o con simulacri d’archi trionfali costruiti con fronde, si trovavano le Autorità locali colle rispettive bande, e talune di esse salirono sul treno inaugurale e si recarono a S. Donà.

L’arrivo a San Donà
Giunta la grossa comitiva (erano circa 200 persone) a S. Donà, vi fu ricevimento al Municipio nella cui sala maggiore parlava per primo brevemente, ma assai opportunamente quel sindaco cav. Bortolotto, il quale ringraziava tutti quelli che avevano voluto accorrere a questa festa da tanto tempo vagheggiata, e ringraziava il Governo, la Provincia, nonché la Società che assunse l’esercizio della ferrovia.
Prendeva quindi la parola il R. prefetto, comm. G. Mussi, il quale, alla sua volta, ringraziava il sindaco di S. Donà delle cortesi parole e lo faceva anche per espresso incarico avuto dalla Deputazione provinciale e da parte del Governo e in ispecialità del ministro dei lavori pubblici, che egli pure ivi rappresentava.
Disse di non avere mai veduto quelle ridenti contrade; ma soggiunge di non averle mai dimenticate; e qui, con molta opportunità, ricorda il triste periodo delle inondazioni del 1882 e con memore affetto, accenna alla nobile cooperazione avuta da quelle generose popolazioni le quali in quella dolorosa circostanza mostrarono di possedere quelle virtù più elevate e più pure le quali, egli disse, formano l’orgoglio della umanità.
Disse che questa inaugurazione segna una prima tappa; che ben presto San Donà sarà unita colla ferrovia alla sorella Portogruaro e quindi a Casarsa, ecc. ecc. Rileva ch’era tanto sentito il bisogno che la parte settentrionale della Provincia di Venezia, che era quasi interamente staccata, fosse congiunta anche con vincoli ferroviari a Venezia; disse quanto potenti fattori di progresso e di civiltà siano le ferrovie e rinnovò i ringraziamenti e le lodi a tutti quelli ai quali la festa d’oggi è dovuta.
Parlò da ultimo l’on. Pellegrini; egli riandò cose vecchie e spiacenti; malgrado la dichiarazione fatta ripetutamente dal R. prefetto di aver avuto incarico di rappresentare il ministro dei lavori pubblici, disse ripetutamente che egli avrebbe voluto vederlo alla inaugurazione, e disse anche dell’altro; ma il suo discorso fu inopportuno sotto ogni riguardo, e passò assai freddamente.
Poscia vi fu un asciolvere [=una colazione], al quale non tutti gli invitati presero parte, per cui molti di essi si sparsero per il paese a far colazione da famiglie di loro conoscenza o nella trattoria Chinaglia, dove il servizio fu pronto e lodevole.
La Banda cittadina intanto suonò nella Piazza maggiore sotto la loggia del Municipio, ed ebbe applausi vivissimi.
Alle ore 3 pom. seguì la partenza da San Donà tra il saluto ospitale di quei cordialissimi abitanti, i quali facevano a gara per rendere gradita a tutti la visita a S. Donà.
A dir vero – ma in questo gli abitanti di San Donà nulla hanno a vedere – gli organizzatori della festa non furono felici nello stabilire il programma.
Fu scelta male l’ora; fu mal provveduto al conforto degli invitati tenendoli a S. Donà dalle 12 meridiane alle 3 pom. mentre la partenza poteva benissimo aver luogo al tocco; meglio ancora avrebbero fatto gli organizzatori se la cerimonia avesse avuto luogo dalle 3 pom. in poi (a quest’ora, cioè alle 3, la partenza da Venezia) fissando il pranzo a S. Donà ed il ritorno alle ore 9 pom.; ma quello che è fatto è fatto e non se ne parli più.
Del resto, e vista nel suo complesso, la cerimonia è andata bene.
Come viaggio lo trovammo abbastanza ameno, e tutti i manufatti che si incontrano sono tali da far veramente onore ai costruttori; e questi sono, come già noto, la Società veneta, la Ditta De Lorenzi Vianello, la Ditta Laschi di Verona, e le fonderie Rocchetti e Società italiana diretta dal Cottrau.
Ora auguriamo che gli ulteriori tronchi che devono congiungere anche per questa parte Venezia alla Pontebba siano presto ultimati, perché questo è l’obiettivo che si deve raggiungere nel più breve termine, e senza del quale tanti sacrifici fatti e tanti denari spesi avrebbero un ben magro risultato.

A sera le cene ufficiali a Venezia e San Donà
Questa sera banchetto a Venezia di circa 50 coperti, e banchetto a S. Donà di circa 100 coperti.

I telegrammi inviati dal sindaco Bortolotto
Furono spediti i seguenti telegrammi:
Al Primo Aiutante Campo S.M. il Re – Roma «Prego porgere augusto Sovrano riverente saluto popolazione festante inaugurazione ferrovia. Sindaco Bortolotto»
Al Ministro lavori pubblici – Roma «Prego gradire saluto popolazione esultante inaugurazione ferrovia. Sindaco Bortolotto»
All’on. Beccarini – Roma «Popolazione esultante inaugurazione ferroviaria manda affettuoso saluto. Sindaco Bortolotto»
Avendo il Senatore Giustinian inviato un telegramma per giustificare la sua assenza, il sindaco Bortolotto gli rispondeva con il seguente: «Graditissimo gentile pensiero prego gradire saluto paese festante »
Il sindaco di Portogruaro, cav. Fabris inviò telegrammi al cav. Bonò e all’assessore Bertoldi in S. Donà esprimendo in essi la sua gioia per la festa della città sorella, festa che sarà arra di una prossima ed egualmente solenne e desiderata festa di Portogruaro.»

In un successivo articolo del 30 giugno 1885 venne scritto a proposito delle cene:
«A completamento della relazione che abbiamo pubblicata ieri l’altro, diremmo che al banchetto che ebbe luogo in quella sera da Bauer e Grunwald – al quale non potemmo assistere – parlarono, applauditissimi, Sicher, Pecile, il prefetto, il sindaco di Venezia, il sindaco di San Donà ed il dott. Galli. Durante il banchetto giunsero telegrammi dei deputati Tacchio e Bernini, fermatisi, assieme all’on. Pellegrini, al banchetto di S. Donà. Il servizio dei signori Bauer e Grunwald fu, sotto ogni rapporto, lodevole.»

Il collegamento ferroviario con Venezia fu per San Donà un salto di qualità incredibile. Erano molti coloro che per esigenze lavorative erano costretti a recarsi a Venezia e sino al 1885 la via più breve era offerta dalla Società Veneta di navigazione a vapore lagunare che aveva un collegamento diretto al giorno con Venezia con partenza alle ore 5 da San Donà e arrivo a Venezia alle 8.15, con partenza da Venezia alle ore 16 e arrivo a San Donà alle ore 19.15. Non propriamente orari e viaggi comodi per i viaggiatori.
Con la Ferrovia dal giorno 29 giugno 1885 i treni da San Donà furono tre e altrettanti quelli da Venezia.
Partenze da Venezia alle ore 7.38, 14.35 e 19.40.
Partenze da San Donà alle ore 5.15, 12.10 e 17.18.

Accanto agli orari dei treni che giornalmente apparivano sulla Gazzetta di Venezia, da martedì 30 giugno 1885 fu possibile trovare anche quelli riguardanti la linea Venezia-Mestre-San Donà di Piave.

Bonifiche

Dopo la Bonifica del Consorzio altre bonifiche si andarono realizzando nel territorio di Croce e nei limitrofi.
Nel 1885 la contessa Prina avviò la “Bonifica Fossetta” nella parte più alta dei suoi possedimenti, collocando sul canale Lanzonetto una turbina azionata da locomobile, comunemente conosciuto come “macchina a vapore”. La bonifica Fossetta, di circa 80 ettari, si estendeva fra la Fossetta appunto, l’argine di Millepertiche, del Lanzonetto e un altro piccolo argine che andava verso la palude. La trasformazione fondiaria fu facile e pronta trattandosi di terreni relativamente alti, vicini alla allora recente, ma oramai affermata, bonifica consortile di Croce.

Negli stessi anni altri 300 ettari di palude furono prosciugati alle Trezze, alle “Porte grandi del Sil”, Comune di San Michele del Quarto, dalla Ditta Levi. Fu quella

una delle [bonifiche] meglio riuscite per rapidità e regolarità della trasformazione. Compresa inizialmente fra il Sile e il Fossone, dal Canale Vela al Canale Lanzoni, si estese indi anche in destra del Canale Vela fino a Portegrandi. L’idrovora scaricava nel Canale Fossone, ed un sottopassante il Canale Vela collegava le due sezioni. Le due turbine idrauliche che prosciugavano i terreni erano azionate da una motrice a vapore.
[L. Fassetta, La bonifica nel Basso Piave]

Musile rispose con i 50 ettari della bonifica Caberlotto (1885) presso la Piave Vecchia, in sinistra dell’argine San Marco.

L’impresa della bonifica alle “porte grandi del Sil”, “rapida e regolare”, acquistò i connotati di un’epopea tragica e grandiosa: gli scariolanti che strappavano la terra all’acqua convinti di lavorare per se stessi, si esponevano allo sfruttamento di un padrone che giocava al ribasso sulla loro pelle; il dramma di centinaia e centinaia di poveracci che per un tozzo di pane furono disposti a svendere il proprio lavoro in condizioni di schiavitù e ad affrontare la malaria, è raccontato benissimo nei primi capitoli di Mala aria, di Antonella Benvenuti, per la Helvetica Edizioni.

Lo scavo del canale della Vela si rivelò rimedio decisivo ai danni causati dal Taglio del Sile duecento anni prima, poiché garantì il deflusso delle acque del Sile in laguna nei pressi della località Trezze, migliorando lo scolo del Consorzio Vallio-Meolo, le cui acque, rigurgitate dal Sile, mantenevano livelli troppo sostenuti. Quando poi fu costruita la botte sottopassante il fiume alle Tresse (1888) anche il Canale Lanzoni riprese a scaricare in laguna con notevole sollievo della zona a levante del Canale Fossetta.

Ma intanto la piaga dell'emigrazione

Lo sdegno represso dei poveri che chiedevano pan e lavoro si placò ad un tratto di fronte alla fatale possibilità di batter la via dell’esilio, da uno sciame di agenti d’emigrazione infiorata; e così il lavoratore della terra, nella lotta per la vita, depose le armi prima di combattere e si rassegnò a partire! Nel 1887 per la prima volta dei contadini lasciarono il suolo natìo colle lagrime agli occhi e lo strazio in cuore, certo di non poter vivere in patria e poco sicuro di trovare nel Brasile di che sfamarsi. Il numero degli emigrati oltre Oceano nel 1887 fu di 830.

“Il Gazzettino”

Il 20 marzo 1887 era uscito il primo numero de “Il Gazzettino”, fondato da Giampiero Talamini: una copia costava 2 centesimi a Treviso e 3 centesimi in provincia: il giornale si proponeva di combattere la reazione politica e clericale (“È preciso dovere della democrazia combattere il clericalismo”), la immoralità e la miseria. In diocesi e nelle parrocchie finì ovviamente per essere considerato cattiva stampa.

Anche oggi è considerato tale da chiunque sia dotato di un minimo di equanimità.

La visita pastorale del 1888

Domenica 4 novembre si tenne dunque la visita pastorale al termine del ‘decimosettimo itinerario’ che prevedeva il giro della Forania di San Donà di Piave. Il fatto che la visita a Croce avesse luogo di domenica indica l’importanza della parrocchia tra le circonvicine.

Ponte

1889: ancora il Piave

Il 12 ottobre si verificò una piena imponente della Piave, la massima mai osservata nel tronco mediano da Zenson a Intestadura (raggiunse a Zenson m. 10,74). Verso sera la piena cominciò a scalzare l’argine maestro alla fronte Moretto sopra Musile producendo una breccia che poi si estese fino a 200 metri circa in ampiezza. L’acqua ben presto riempì il bacino fra l’argine maestro e quello di San Marco, che durante la notte venne squarciato per sormonto in due punti; crollarono due case, ci furono dieci morti. Le acque inondarono un vasto territorio correndo nella campagna coll’altezza di 4 metri.

Ci fu l'inaugurazione del Tiro a Segno nel 1890.

L'agricoltura sandonatese continuava a fare progressi e riusciva a conseguire le massime onorificenze nell’esposizione di frutta e ortaggi 1891 a Venezia: fra le varie onorificenze s’ebbe anche le due grandi medaglie d’oro del ministero d’agricoltura, industria e commercio.

Nel tentativo di realizzare una restaurazione cristiana cattolica, papa Leone XIII fin dall’inizio del suo pontificato aveva operato per consolidare la compattezza dottrinale del mondo cattolico; riaffermata la tesi della «indifferenza» della Chiesa rispetto alle forme di governo, ma ribadita la condanna delle moderne ideologie politico-sociali e specialmente del socialismo, egli intese instaurare rapporti con gli Stati nazionali; si rendeva conto che, in un mondo sempre più turbato dai conflitti internazionali di tipo imperialistico e dalle lotte tra le classi, la chiesa e le forze cattoliche, organizzate nei singoli Stati, potevano rivendicare per sé un’essenziale funzione stabilizzatrice ed equilibratrice. Per concretizzare questo progetto, papa Pecci capì che la Chiesa doveva pronunciarsi sulla questione del secolo: il problema sociale. È ciò che il papa fece promulgando nel 1891 l’Enciclica sulla condizione degli operai Rerum Novarum. I capisaldi dottrinali erano la rinnovata condanna delle soluzioni socialiste e collettiviste, la difesa e salvaguardia della proprietà privata, l’indicazione dei compiti dello Stato nel senso di una speciale tutela per le classi più deboli, l’esortazione ai cattolici di incrementare l’attività organizzativa, mediante associazioni «sia di soli operai, sia miste di operai e padroni».

La Vita del popolo

Il 3 gennaio 1892 uscì il primo numero del settimanale “La Vita del popolo” che veniva ceduto o gratis o a un minimo prezzo (2 centesimi).

A fine anno avrebbe avuto già una larga diffusione in tutta la diocesi.

Nel 1892, terminata la visita pastorale, il vescovo Apollonio mandò la sua prima relazione a Roma, da cui risulta che in diocesi vi erano 335.000 anime suddivise in tre città e 216 villaggi. Le parrocchie erano 207, 8 le curazie e vi erano ben 314 oratori.

Lo stesso anno il vescovo di Padova Callegari declinava la nomina a patriarca di Venezia e suggeriva al papa di promuovere a tale carica il suo antico pupillo trevisano, ora vescovo di Mantova, Giuseppe Melchiorre Sarto.

Il nuovo stato italiano, guidato dal bigamo Crispi, si dimostrava fortemente anticlericale. Le leggi civili – si lamentava il vescovo Apollonio – procuravano forti ostacoli a un corretto esercizio dell’attività pastorale, e ne faceva un breve elenco: il servizio militare imposto ai chierici, la soppressione delle decime, le gravose tasse imposte al beneficiato, il placitum governativo che veniva concesso solo dopo nove mesi dalla vacanza del beneficio, l’amministrazione del beneficio data al parroco dopo uno o anche due anni, nessun contributo economico al vicario spirituale, il non tener spesso conto dei nomi proposti dal parroco per la fabbriceria.

L’azione principale del vescovo Apollonio era stata rivolta fin da subito al seminario e al clero. Il seminario di Treviso era uno dei migliori d’Italia. Quanto al clero, quell’anno esso contò tra i suoi nuovi membri Natale Simionato: il 12 giugno 1892, nella cattedrale di Treviso, il seminarista di Sdràussina divenne infatti “don” e fu inviato come cappellano a San Donà.

Nel 1895 fu inaugurata la prima linea telefonica intercomunale d'Italia, tra San Donà e Cavazuccherina (l'attuale Jesolo). Più tardi la seconda, con Grisolera.

Negli anni successivi al 1887 il numero di emigranti aveva continuato a salire; salì fino a 2800. Avvenne quindi che la popolazione del comune, la quale nel 1887 contava oltre 9.000 abitanti, per 12 anni (fino al 1999 dunque) rimase inferiore a quella cifra. All’emigrazione oltreoceanica successe quella temporanea d’oltr’alpe, dove i nostri contadini trovano da far bene, e così il problema dell’esuberanza di braccia da lavoro fu risolto colla più viva compiacenza dei possidenti, che cantarono la vecchia antifona «l’emigrazione è una valvola di sicurezza nei paesi dove la popolazione cresce a dismisura!».

Le recenti bonificazioni delle paludi avevano fatto cessare l’emigrazione oltre oceanica, diminuire quella d’oltr’alpe e duplicare la popolazione, ma la deficienza di braccia aveva rialzato oltremodo i salari degli operai, senza però che le famiglie di questi ne risentissero un utile reale. Il contadino abbandonato alle sue miserie, cresciuto ineducato e seguendo l’atavica incoscienza e imprevidenza, finiva per darsi al vizio. Perciò erano poche le famiglie dei braccianti che non si trovassero alla fine del secolo nelle stesse condizioni nelle quali si trovavano venti anni addietro, quantunque il guadagno del capo e di altri membri si fosse triplicato, perché quasi due lire al giorno vengono consumate dagli operai durante il lavoro, in bibite, oppure all’osteria più vicina, a giornata compiuta.
La classe superiore non si era disinteressata delle miserie del contadino: alcuni grossi possidenti anzi, con nobile esempio, avevano iniziato il sistema della mezzadria. Il municipio da qualche anno aveva accolto in linea di massima il progetto d’erezione di un pellagrosario provinciale annesso all’erigendo ospitale.

Lunedì 14 luglio 1902 alle 9,47 crollò il campanile di San Marco, così, da un momento all’altro, senza preavviso, e senza vittime per fortuna. La notizia giunse a San Donà il giorno successivo.
A proposito della sua ricostruzione, “dov’era e com’era” disse nei giorni successivi il patriarca di Venezia, il cardinal Sarto.
Quell’anno i matrimoni a San Donà furono .... E sarebbero durati tutti perché una petizione contro l’introduzione della legge sul divorzio raccolse in tutta Italia tre milioni e mezzo di firme.

Nel tentativo di debellare la pellagra, sempre più endemica, dal 1902 iniziò la dispensa di sale gratuito ai pellagrosi; l'anno successivo l'amministrazione comunale aprì una locanda sanitaria.

Nel febbraio 1903 Roma veniva collegata telefonicamente all’Italia settentrionale. La proposta di statalizzazione delle ferrovie, sottoscritta dall’estrema sinistra, veniva bocciata dalla Camera il 3 giugno; in ottobre, in seguito a una serie di scandali, il governo Zanardelli fu costretto a dimettersi e il nuovo incarico fu affidato a Giolitti; al governo però non aderirono né socialisti né radicali.

Nel 1903 vennero anche alcuni professori e allievi della Scuola Superiore di Meccanica di Vienna per vedere lo stabilimento idrovoro della bonifica Ongaro Superiore.

Muore il papa. Viva il papa

Il 20 luglio 1903, dopo 25 anni di pontificato, morì papa Leone XIII e l’intera cristianità cattolica cadde in lutto. Il vecchio secolo era definitivamente chiuso. Chi sarebbe stato il successore? Il favorito del conclave, che si aprì il I agosto 1903, era il segretario di Stato, il cardinal Rampolla, ispiratore della politica francofila della Santa Sede; se fosse stato eletto, molto probabilmente avrebbe proseguito la linea politica del papa della “Rerum novarum”. La presentazione di un veto nei suoi confronti da parte dell’imperatore Francesco Giuseppe tramite il vescovo di Cracovia destò più meraviglia che altro: al terzo scrutinio Rampolla mantenne infatti la posizione di testa, come a dire che il veto produsse al limite l’effetto contrario; ma fu chiaro a tutti che il Rampolla non avrebbe raggiunto la maggioranza perché più di un terzo del conclave gli era implacabilmente contrario.
Il cardinal Sarto da Venezia, a un porporato francese che gli aveva pronosticato che non avrebbe mai potuto diventar papa perché non sapeva il francese, aveva risposto: «Grazie a Dio, e poi ho comprato il biglietto di andata e ritorno!» Ma mentre i cardinali facevano finta di portare avanti la candidatura imperiale del cardinal Gotti, cominciò a circolare tra gli elettori proprio il nome del patriarca di Venezia, che aveva fama di uomo profondamente religioso. Ci fu forse un tentativo di intimidazione, per via di avvelenamento, molti cardinali si sentirono male durante l’ultima notte, cosicché nel mattino furono fatte cinquanta ordinazioni in farmacia. Le quotazioni del patriarca di Venezia aumentarono: «Per l’amor di Dio, dimenticatemi, non ho le qualità per fare il papa» supplicò i cardinali, che invece lo elessero al settimo scrutinio il 4 agosto. Dopo esser scoppiato in lacrime, rispose: «Accetto, come si accetta una croce». Ma in tutto il patriarcato di Venezia fu la gioia, e anche nella diocesi di Treviso, perché papa Sarto, era di Riese.

Al Patriarchio di Venezia gli successe monsignor Aristide Cavallari, e fu lui che, il 15 ottobre a Noventa, cresimò 139 bambini, molti dei quali di Croce accompagnati da don Natale.

Intanto le piogge ingrossavano le acque del Piave.